VENEZIA 61 – "Haryu insaeng" – A cavallo della tigre, di Im Kwon-taek (Concorso)

Come in “Ebbro di donne e di pittura”, Im Kwon-taek racconta la storia del suo Paese, la Corea, attraverso la vita
di un uomo. Questa volta però ci troviamo di fronte alla gelida messa in scena di un ganster movie che procede in maniera
lineare e lascia in sottofondo emozioni, personaggi e situazioni

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Lascia insoddisfatti il nuovo film del prolifico regista coreano Im Kwon-taek. Alla stregua Ebbro di donne e di pittura, anche A cavallo della tigre si propone di raccontare la storia di un paese, la Corea, attraverso le vicende personali di un personaggio principale, il gangster Tae-woong. Ma se nella precedente pellicola, il cineasta aveva optato per una alternativa coraggiosa, scardinando totalmente la tradizionale narrazione cronologica, in favore di una struggente e affannosa ricerca segnica, che potesse contenere la vertigine creativa e strabordante del suo protagonista, il pittore anarchico e vagabondo Oh-won, in quest'occasione Im Kwon-taek fa una scelta antitetica che non convince. Non solo predilige la linearità del racconto, ma lo inserisce all'interno di un genere ultracodificato come il gangster movie, che si costituisce subito come un argine piuttosto che come un territorio su cui poter agire liberamente. Il risultato è un film senz'altro più "composto" e meno sfilacciato di Ebbro di donne e di pittura, ma non per questo più autentico e rigoroso. La storia, il ventennio che va dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, resta infatti un eco relegato in sottofondo, ridotta nella sua accezione di scena-scenografia provocatoriamente fisse, materia immobile osservata a distanza, incapace inoltre di vibrare  anche quando si fa contenitore di terribili sconvolgimenti politici e culturali, come il colpo di Stato dei militari dopo la rivoluzione studentesca dell'aprile 1960. Anche il protagonista Tae-woong la cui evoluzione, da giovane e sprovveduto teppista a galoppino dei più importanti boss della malavita locale, non sfugge a questa staticità ed è un immagine che permane e si agita sulla superficie, quasi a voler testimoniare la lontananza emotiva, politica e intellettuale di un cineasta, il cui sguardo finisce per estranearsi anche nelle sequenze più dolorose. E da un autore che è stato capace di realizzare una biografia d'artista come un'elegia d'amore straziante e visionaria, ci si aspettava inevitabilmente di più.

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