VENEZIA 61 – "Hotel Promised Land", di Amos Gitai (Concorso)
Non è il conflitto interminabile che Gitai scandaglia, ma il campo ristretto che non cede neanche più un centimetro di libertà: arabi e israeliani occupano gli spazi e allo spettatore non resta che sbirciare fugacemente. Dal piano sequenza di Alila alla cronaca dissezionata e compressa.
Dal piano sequenza di Alila (presente a Venezia l'anno scorso), Gitai disseziona e comprime la storia. È un ibrido Hotel Promised Land, tra il reportage documentaristico e il cinema spasmodico dove il viaggio cattura il senso d'urgenza e respinge l'iconoclastia classica della Terra martoriata. Non è il conflitto interminabile che scandaglia, (per quello il rimando segue Kippur o Kadosh), ma il campo ristretto che non cede neanche più un centimetro di libertà: arabi e israeliani coprono gli spazi e allo spettatore non resta che sbirciare fugacemente. Gitai rielabora il fenomeno del traffico internazionale della prostituzione (vedi Bangkok-Bahrain del 1984) provando a impastare lo sguardo di pura investigazione (immagini sgranate, digitale che marca stretto, attrezzature spesso in campo) sull'orizzonte degli eventi naturali, con quello più innaturale, disumano e immorale che accorpa il dolore della sottrazione indebita. Ormai è esplosa la tratta delle donne dell'est. Merce umana attraversa il deserto del Sinai per giungere sul Mar Rosso e in altri territori mediorientali ad affollare locali a luci rosse. Strappate ai loro paesi d'origine, si ritrovano catapultate in un mondo surreale da percepire non da dentro ma da dietro un camioncino, come bestiame al macello. Come in Route