VENEZIA 61 – "Le chiavi di casa", di Gianni Amelio (Concorso)
In "Le chiavi di casa" non sembrano prodursi reali spostamenti, ma la fissità di un cineasta chiuso narcisisticamente nel proprio mondo, che non lascia più vivere i personaggi ma ormai li seziona con primi piani ravvicinati, con l'atteggiamento supponente a metà tra il documentarismo del cinéma-verité e lo sguardo antropologico.
Dopo aver vinto il Leone d'Oro nel 1998 per Così ridevano, Gianni Amelio torna in concorso al Lido con Le chiavi di casa ispirato al romanzo Nati due volte di Giuseppe Pontiggia, uno dei titoli più attesi di questa Mostra. Il rapporto padre-figlio, il tema del viaggio che da sempre hanno costituito gli elementi della sua filmografia ritornano anche in Le chiavi di casa, vicenda che vede protagonisti Paolo (Andrea Rossi), un adolescente disabile di quindici anni preso in consegna a Monaco dal padre Gianni (Kim Rossi Stuart) che fino a quel momento non si erano mai conosciuti. Nell'asse tra
Un cinema "di padri" quello di Amelio, un viaggio di scoperta dove si sente in maniera massiccia anche la presenza della scrittura di Rulli e Petraglia, un film di falsa improvvisazione e in realtà minuziosamente calcolato, indiscreto e al limite dell'invadenza nei confronti dei desideri di Paolo – il viaggio in Norvegia per vedere la ragazzina di cui si è innamorato – che sembra benevolo nei confronti delle debolezze e del disagio di Gianni nel continuo tentativo di rapportarsi a Paolo nel miglior modo possibile ma che poi gli pone specularmente la figura della donna (Charlotte Rampling) con la bambina disabile come esempio morale e umano. Amelio, dietro la sua spontaneità, è in realtà un sottile e abile manipolatore, atteggiamento evidente anche nel modo in cui utilizza la canzone di Vasco Rossi nella scena in macchina tra Gianni e Paolo in cui cerca di creare una vicinanza non con i suoi personaggi ma proprio con lo spettatore e nella scena finale in cui il padre si mette a piangere e Gianni lo consola. Amelio guarda di nuovo il neorealismo e in particolare il finale di Ladri di biciclette. Come se il cineasta realista avesse ancora bisogno di fare il critico-pedagogo e inchinarsi di fronte all'arte dei maestri per poter poi essere anche lui incensato a sua volta dalla critica. De Sica però entrava nel cuore dei suoi personaggi. Amelio invece neppure gli si avvicina. Ciò che mancano infatti sono i vuoti necessari. Lo spazio è sempre pieno di materia, di corpi, oggetti, luci, mezzi di trasporto. Il tragitto, rispetto al passato, è così ormai troppo sovraccarico. Oltre il livello massimo di guardia. Sarà forse un altro Leone. Come "risarcimento" per il premio immeritato già vinto sei anni fa.