VENEZIA 61 L'elegia dell'attesa nel nuovo E.T. di Spielberg: "Terminal" (Fuori Concorso)

Dall'alieno ExtraTerrestre all'alieno bloccato nell'ExtraTerritorialità il cinema di Spielberg continua, quasi messianicamente, la sua parabola sull'integrazione universale, macinando in un contenitore tra il mèlo e la commedia alla Frank Capra valori necessari come speranza, rispetto, valorizzazione delle differenze, centralità dell'individuo/persona

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"Torno a casa", dice alla fine al tassista Victor Navorski (Tom Hanks), ed è già tutto lì il segno di Spielberg, che rimanda a quel bisogno primario del suo protagonista per eccellenza, E.T., che vuole far di tutto pur di ritornare dal pianeta lontano da cui proviene. Anche Victor è un alieno, come lo sono per l'America di oggi, che pure è un paese fatto di alieni, tutti coloro che arrivano da posti lontani e sconosciuti, come l'immaginaria Krakozhia, piccola nazione dell'Europa dell'est da cui Victor Nevorski proviene, che improvvisamente piomba nel caos susseguente ad un sanguinoso colpo di stato. E Victor che allegramente giunge all'aeroporto JFK di New York, con poche parole di inglese nel suo bagaglio e solo una piccola promessa personalissima da adempiere, nulla sa di questo avvenimento, accaduto proprio nel mentre del suo viaggio. Ed eccolo ritrovarsi in questo meraviglioso mondo asettico dell'Air Terminal, dove rimarrà curiosamente bloccato da una sorta di vuoto legislativo: Victor infatti, per la disperazione del responsabile della sicurezza Dixon (Stanley Tucci) non può entrare negli Stati Uniti né essere rimandato indietro, finché non sarà riconosciuta dal governo la sua piccola nazione ora nel caos della guerra civile. Ed eccolo nel territorio vuoto/pieno del Terminal, ritrovarsi solo e sperduto, senza poter andare in nessun altro luogo. E qui Spielberg ruba (omaggia) esplicitamente dallo Zemeckis di Cast Away, con Tom Hanks che dopo il comprensibile iniziale sconforto per la situazione lentamente trova le sue forme di adattamento. E se un po' alla volta saprà farsi apprezzare ed amare tra i vari abitanti di quel territorio di transito dove, unico, è costretto a restare, troverà invece un nemico in Dixon che vede in quel soggetto un possibile intralcio alle sue ambizioni di carriera, un ostacolo alla tranquillità della sua gestione ligia alle leggi e alle regole. Anche se il film è ispirato ad una storia vera, un iraniano rimasto per mesi nell'aeroporto di Parigi, ed è stato concepito prima dell'11 settembre, oggi questo universo concentrazionario, questa chiusura alle porte dell'Americana non può passare inosservata, e non può immediatamente assurgere a lettura della prigione America (o prigione/Occidente) che alcuni politici vorrebbero disegnare per proteggerci dal resto del mondo. Ma il resto del mondo è già qui, nascosto nei rivoli dei lavori più umili, come l'addetto alle pulizie indiano gupta (Kumar Pallana) o al ristorante come Enrique Cruz (Diego luna, già protagonista di Y Tu mama Tambien di Cuaron). E' in questo piccolo sottomondo, dove convivono neri e bianchi, ispanici e orientali, che Victor trova con pazienza e una profonda umanità il suo nuovo habitat, dove viene riconosciuto come una persona, proprio quello che invece il ligio e schematico Dixon non riesce a fare.

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E l'extraterrestre, o meglio l'uomo extra territorio, l'uomo senza patria (a men without a country, come lo chiama Enrique), diventa da un lato un elemento di disturbo dell'attività istituzionale di controllo e vigilanza, ma dall'altra arricchisce il patrimonio umano dell'ambiente, riuscendo persino a intavolare una platonica storia di (quasi) amore con la hostess Amelia (Chaterine Zeta-Jones) sempre perduta in storie con uomini sposati e perennemente in viaggio, in movimento verso altrovi. Ed è in questo iato, in questo stridente contrasto tra il luogo di passaggio per eccellenza, dove si sta il tempo  necessario per essere trasportati altrove, e questo altrove perenne che diventa il l'aeroporto per Viktor che sta la forza del film di Spielberg, che sa materializzare il Terminal come una personalissima casa dei sogni, dove tutto è possibile, persino le storie d'amore di cui Viktor si fa tramite, che si concluderanno con un fantastico matrimonio tra Enrique e la bella poliziotta Dolores (Zoe Saldana, un sorriso da tenere d'occhio).

E' l'omaggio al cinema di speranza, ottimista e coraggioso di Frank Capra, persino nel gioco di parole Padre/Capra con cui Victor elude le leggi dello sbarco per aiutare l'emigrato russo a portare le medicine al padre malato, e Spielberg per una volta realizza un film piccolo e discreto, gioioso e fantastico, stralunato e dolce, dove la tolleranza per il diverso regna sovrano in un'elegia di quella meravigliosa essenza della vita che chiamiamo attesa, la metafora migliore del senso della vita (non si dà vita quando si è in "dolce attesa", del resto?).

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