VENEZIA 61 – "Marebito", di Takashi Shimizu (Cinema Digitale)

Shimizu è tra i giovani registi più interessanti del nuovo cinema giapponese. Sembra essere già considerato il futuro idolo dello "splatter-gore". Al di là delle "ripetitività" di genere, il cine (ma) video è una metamorfosi della dis-continuità ancora non superata completamente in una società che si affanna a contenere il disordine.

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Shimizu è tra i giovani registi più interessanti del nuovo cinema giapponese. Sembra essere già considerato il futuro idolo dello "splatter-gore". Il suo The Grudge, del 2002, è stato acquistato, tra l'altro, per il mercato italiano dalla "Distribution 01". Sebbene il film uscì in una sola sala, divenne un successo in tutto il Giappone incassando 500 milioni di yen. Attualmente il regista sta lavorando al remake hollywoodiano di The Grudge prodotto da Sam Raimi. In Marebito, sorprendente è l'interpretazione di Tsukamoto che sembra aprirsi come regista e attore ad una nuova stagione creativa, collocata in un ipotetico limbo sospeso tra inferno e paradiso, alla ricerca dell'identità e dell'essenza della passione. Masuoka, un cameraman, è preso dal desiderio della paura. Nelle immagini che gira, ci sono sempre persone spaventate da qualcosa. Pensa di voler vivere la stessa esperienza. Un giorno "sprofondando" nei sotterranei di Tokio gli appare un Dero (robot distruttivo), uno strano essere (concepito dallo scrittore Richard Shaver) che vive nel mondo e si muove come un animale. Inoltrandosi in una grotta trova una creatura, un "Kaspar Hauser" nipponico, dalle sembianze umane ma dagli istinti primordiali. Non ha nessuna intenzione di lasciarla sottoterra e decide di allevarla e curarla. Ma quando scopre che il sangue (preferibilmente umano) è l'unico alimento desiderato, il protagonista è pronto a sacrificarsi…

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Teoria della terra vuota, attrazione della pazzia, circuiti esheriani che si annodano (Masuoka ha un quadro dell'artista nell'appartamento), digitale ad alta definizione che incrocia quella "low tech" della sua camera, sono i riflessi del cinema giapponese dopo anni d'esitazione e di transizione. La trasformazione fisica (proprio come nei film di Tsukamoto) sembra terminata. Ci si interroga ancora sulla propria identità, ma in modo diverso. Lo stile è più aspro e complesso. L'isola è ormai preda della rete. Il nuovo cinema del Sol Levante, e quindi quello di Shimizu, esprime i timori di una società che ha vissuto nella sicurezza più assoluta e che ora non ha difese di fronte alla tanto temuta, ma inevitabile (?), globalizzazione. L'Occidente (non più oscuro straniero) è affascinato e perso in un gioco degli specchi nel quale ciascuno guarda e al tempo stesso è guardato dall'altro.

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