VENEZIA 62 – "La seconda notte di nozze", di Pupi Avati (Concorso)

Né ius primae noctis, né secundae… Dopo questo ennesimo, spossante esercizio non di stile ma di stantìo non-cinema non ci "sposeremo" probabilmente mai con Avati e i suoi "prodotti", quasi sempre a uso e consumo della noia più feroce e avvilente. E come se non bastasse la Ricciarelli e la dedica finale inabissano ancor più… ciò che è già affondato

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Difficile entrare in sala e uscirne così delusi. Anzi ricominciamo, perché abbiamo peccato di leggerezza, siamo stati imprecisi: si è "delusi" quando ci si aspetta qualcosa, qui siamo nel campo della "quasi matematica" certezza, suffragata dalla filmografia di un regista che, allenianamente (per prolificità e non certo per qualità), da trent'anni s'incapponisce a fare un film all'anno, a volte persino due, e finisce quasi sempre (La casa dalle finestre che ridono e Regalo di Natale tra le rare eccezioni) per ammassare nel suo calderone memorie e amorazzi affogati in musiche d'epoca, ulteriori specchi incapaci di rimandare altra verità se non una pochezza descrittiva ed emozionale mascherata da una delicatezza subdola nella sua ingannevole consistenza di evanescenti vaporosità. Forse Avati ha capito che la sua Bologna non è la New York di Allen, quindi una volta tanto si distacca dalla sua fetale città, dove vivono nella miseria del dopoguerra Lilliana (Katia Ricciarelli) e il figlio opportunista e imbroglione Nino (Neri Marcorè) per spostarsi in Puglia, località Torre Canne, dove li vuole accogliere il cognato e "Forrest Gump" locale (si fa per dire…) Giordano (Antonio Albanese), infatuato della vedova del fratello e pronto a sposarla, già ospite di un ospedale psichiatrico e di sedute di elettroshock, che vive con due vecchie zie nella tenuta di famiglia e che ha come unica occupazione quella di sminare i campi circostanti. Insomma né ius primae noctis, né secundae… perché dopo questo ennesimo, spossante esercizio non di stile ma di stantìo non-cinema non ci "sposeremo" probabilmente mai con Avati e i suoi "prodotti", quasi sempre a uso e consumo della noia più feroce e avvilente dalla quale non riesce a salvarci neanche la sempre brava colonna storica del cinema italiano che fu, Marisa Merlini (sorella di Giordano assieme alla de-filippiana Angela Luce). Albanese boccheggia nello striminzito ruolo, Marcoré non convince neanche un secondo come cattivo, riconfermandosi nella limitatezza attoriale del ruolo di "buono e caro ingenuo", l'impagliato divo del cinema Enzo Fiermonte, ammirato da Nino/Marcorè, non odora assolutamente della magia del cinematografo così come non potete proprio chiederci di sprecare parole sull'esperimento a dir poco diabolico di mettere davanti alla macchina da presa una rabbrividente Ricciarelli, che sembra non aver capito assieme ad Avati che i "recitativi" operistici non hanno nulla da spartire con la recitazione cinematografica. E siccome "al peggio non c'è mai fine", come recitava un vecchio adagio, la dedica finale ai bambini che hanno "brillato" di luce (non propria), e tuttora "brillano" esplodendo per le mine, è l'infastidente colpo di grazia conclusivo gratuitamente e pericolosamente poetico che Avati non si dovrebbe permettere dopo aver sfiorato solo a tratti un tema così scottante e ancora attuale con ingiustificata leggerezza. Anche perché a fabbricare quei vigliacchi ordigni c'è anche la nostra "cara" Italia…

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