VENEZIA 62 – "Musikanten" di Franco Battiato (Orizzonti)

Dopo "Perduto amor", Battiato torna dietro la macchina da presa con un film anarchico ed eversivo, gaudente e gioioso. Un gesto ribelle che si avventa contro i limiti del linguaggio cinematografico inventando nuove forme di vita filmica.

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Del gesto e della singolarità. Dell'ecceità. Il secondo film dietro la macchina da presa di Franco Battiato, dopo l'ottimo e più intimista esordio di Perduto amor, è un ode all'eccellenza del genio, alla sua sregolatezza; al magico disordine dell'arte che spazza via con la forza di un solo fotogramma ogni possibile normalità e normatività cinematografica.

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Scritto ancora una volta col complice Manlio Sgalambro – il filosofo di Lentini autore dei testi degli ultimi album di Battiato e scrittore di libri di filosofia come Trattato dell'empietà, La morte del sole, La consolazione e Anatol -, Musikanten è un'opera musico-visiva in tre atti o movimenti: il primo racconta di un reportage giornalistico che due giornalisti (Fabrizio Gifuni e Sonia Bergamasco) intendono dedicare a persone in cerca di nuovi modi per sperimentare la difficile arte di stare al mondo; il secondo sprofonda in pieno ottocento seguendo tracce e brani della vita di Ludwig van Beethoven (Alejandro Jodorowski); il terzo è una sorta di epilogo paradossale e sarcastico che annuncia un colpo di stato globale e la fondazione di un nuovo superpartito mondiale democratico.


Dal linguaggio (la televisione e il modo di fare informazione) ai corpi ed alle forma di vita (Beethoven e la sua geniale anormalità) fino alla politica (la sequenza finale con l'annuncio del colpo di stato): Musikanten è un grido anarchico che scompagina la forma e le norme di ogni possibile schema visivo per giungere al cuore pulsante della vita, a quel gesto vitale che solo può resistere al potere di una politica omologante e normalizzante. Un'opera pieni di allusioni (ma la filosofia, quella vera, non è, come ricorda Deleuze, una gigantesca "arte dell'allusione"?), ricamata lungo continui interstizi spaziali e temporali, nicchie e angoli dove i corpi seguono nuove e possibili linee di fuga intrecciando la musica, il cinema, il video e la filosofia. Un film pieno di gesti e atti, stracolmo di volti straordinari (da quello di Juri Camisasca ad Antonio Rezza passando per lo stesso Sgalambro e per uno bravissimo Alejandro Jodorowski) che oppongono la loro giocosa e gioiosa "ecceità" ad una realtà sempre più leggibile e codificata. E forse proprio questo gesto formale e vitale avvicina il cinema di Battiato e Sgalambro a quello di Pier Paolo Pasolini: tutti "scrittori di cinema", "musicanti di immagini" sempre pronti ad avventarsi contro i limiti del linguaggio inventando nuove forme di vita,  altri modi di stare davanti e dietro ad una macchina da presa. Piccole urla di creatività, di scherzosa "rabbia" cinematografica lanciate contro l'omologazione di un'industria culturale sempre più ottusa e sorda al genio del singolo. Ad ogni festosa "ecceità".

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