VENEZIA 62 – "Quando ho scoperto il racconto di Conrad, "Le Retour", e ho letto: "Se avessi saputo che mi amavate, mai sarei tornata…", non ho avuto più dubbi…". Incontro con Patrice Chéreau.

In Concorso il regista di "Intimancy" e "La Regina Margot" con un film tratto dal racconto di Joseph Conrad, "Le Retour". Patrice Chereau cambia il titolo in "Gabrielle", interpretata da Isabelle Huppert.

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In Concorso il regista di "Intimancy" e "La Regina Margot" con un film tratto dal racconto di Joseph Conrad, "Le Retour". Patrice Chereau cambia il titolo in "Gabrielle", interpretata da Isabelle Huppert. L'incontro erotico: un momento insolitamente violento e brutale, preceduto il giorno prima da cortesi poesie e seguito il giorno dopo da poesie di rimpianto e nostalgia. È questa l'atmosfera per tutto il film, opera ambientata all'inizio del secolo, con l'alternanza di bianco e nero e colore. Una coppia dell'alta borghesia francese sembra vivere un rapporto ormai privo di passione, ma assolutamente tranquillo e controllato. in realtà è prossimo il crollo irreparabile di un mondo fittizio che mascherava solo sofferenza…

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Come e quando è nata l'idea per questo film?


Cercavo il soggetto per un film senza cercarlo. In quel periodo leggevo molto. E mi è capitata tra le mani un'edizione dei racconti di Joseph Conrad. Quando sono arrivato a quello intitolato "Le Retour", a giugno 2003, mi sono detto, in un attimo, che sarebbe potuto diventare un film: ma siccome nella vita non si può sempre leggere pensando a una sceneggiatura futura, ho continuato a leggere il volume, dimenticando quest'idea. Solo a dicembre 2003, quando ho riletto questo racconto ne sono stato sconvolto. Sconvolto d'improvviso dalla descrizione di quest'uomo perduto, sconvolto dalla sua sparizione finale, dall'enigma di quella donna, da quanto poco diceva, dal suo ritorno, dalla sua forza indistruttibile e, infine, da una frase: " Se avessi saputo che mi amavate, mai sarei tornata".


 


Ha subito pensato per la parte di Gabrielle a Isabelle Huppert?


Si. Ho detto abbastanza presto a Isabelle che stavo pensando a qualcosa per lei. Da tanto tempo ci cercavamo reciprocamente. La prima cosa che le ho chiesto è stato di non leggere il racconto di Conrad: tutto è visto con lo sguardo dell'uomo, raccontato da lui, sentito da lui. Isabelle ha avuto l'intelligenza di essere paziente, di aspettare che il suo personaggio si definisse e rinascesse durante il lavoro di sceneggiatura.  Isabelle può recitare di tutto, è risaputo, è una macchina recitativa meravigliosa.


 


Quanto la sua preparazione teatrale è stata importante per la realizzazione del film?


In questo film, potevo utilizzare dichiaratamente tutto quello che mi ha insegnato il teatro. Penso di essere ormai libero dal teatro: libero da quello che mi viene sempre detto sul "cinema che è diverso dal teatro", libero di essere un regista cinematografico e teatrale. C'è voluto del tempo, ma questa volta, mi è piaciuto avvicinarmi in modo delizioso al mio passato di uomo di teatro, sentirmi capace di immaginare un film corto, molto formale e che ho sempre pensato come violentemente stilizzato. Un film nel quale si descrivono con precisione gli usi di un popolo esotico: dei ricchi, che hanno delle proprietà, intorno al 1912, a Parigi.


 


E quell'atmosfera cupa?


Volevo questo lusso ghiacciato e soffocante, questo principio di XX secolo come una tomba, costruita da quest'uomo con l'intento di seppellirci qualcuno vivo: sua moglie. Volevo vedere ad occhio nudo, come in un esperimento chimico condotto su due begli esemplari, nella bellezza dei costumi, nella loro eleganza, in quella delle scenografie, della musica onnipresente, volevo vedere, dicevo, un mondo sbriciolarsi e crollare (il suo), e un altro (lei) svegliarsi e costruirsi nel dolore. A volte molte parole, spesso molto silenzio.

Quale altro regista pensa abbia usato la parola con maestria?


Naturalmente mi piace Bergman, lo venero, ma mi piacciono anche i grandi registi americani, quali Coppola, Scorsese, Cimino, Leone, che osano parlare molto. Probabilmente in Francia ci siamo bloccati nel timore dei dialoghi, nella paura del teatro, la paura della perdita della naturalezza. La verità, sì, bisogna cercarla, trovarla; non per forza bisogna fare lo stesso con la naturalezza.


 


Potrebbe spiegare l'uso particolare di alcuni stili espressivi da lei utilizzati nel film?


Un film sulla Belle Epoque doveva essere credibile. Abbiamo lavorato molto con foto d'epoca, un costante va e vieni; abbiamo fatto numerose prove con la telecamera, con luci diverse. Avevo voglia, sin dall'inizio, di tentare azioni stilistiche forti: cominciare il film in bianco e nero prima di passare bruscamente al colore, non esitare ad utilizzare scoppi formali molto forti, come le immagini al rallentatore, i fermo-immagine e commentare l'azione con intermezzi scritti, sui quali si potevano sentire anche alcune frasi del dialogo. Tutte cose che sono un tempo puro del cinema e che permettono anche di meglio accogliere  quel che nel mio lavoro, sul testo, sull'immagine e con gli attori, ritrova le radici del teatro e della letteratura.


 


Non ha timore che il suo film possa essere "ridotta" ad un'opera che parla di una "donna di quell'epoca"?


Il mio film vorrei che avesse una vocazione più universale: raccontare questa donna che torna in questa casa perché l'amore non ci abita, quest'uomo che se ne va perché non c'è mai stata la vita. Vorrei che il mio film rispondesse ad una domanda di tutti i tempi, che captasse qualcosa che appartiene all'inafferrabile, al segreto dei volti e dei movimenti. 

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