VENEZIA 63 – "C'est Gradiva qui vous appelle" di Alain Robbe-Grillet (Orizzonti)
Nell'opera di Alain Robbe-Grillet non si muore mai e non si è mai nati. Il sogno è la liturgica parabola dell'esistere. La sofferenza l'unico piacere emerso che placa il desiderio col dolore, la vita col ricordo, il tempo con lo spazio.
Nessuna inopportuna incongruenza quel sottile, viscerale legame che lega l'opera "in bozze" del genio Delacroix con l'estetica boudoir del Marchese francese. Lo scrittore regista Alain Robbe-Grillet atterra a Venezia con il suo ultimo atteso film "C'est Gradiva qui vous appelle" – che sembrava preannunciare una sorte avversa con un inizio di proiezione (la pomeridiana) con assenza di sonoro, pubblico irritato e autore su di giri fuggito fuori dalla sala – e la dichiarata affinità elettiva tra Eugène e De Sade esplode con tutta la sua incandescente sacralità.
Marocco, non dei giorni nostri, di nessun giorno. Come e dove solo il padre dell'Ecole du regard avrebbe potuto immaginare: un "non soggetto" come questo. Finora: uno dei più autentici e maturi. Un ricercatore europeo appassionato di dipinti e una casbah come luogo di arrivo, permanenza, di scoperte, spazio sacrificale di orrori e delitti. Un fantasma del passato, musa del pittore, in danza perenne tra le pareti del castello, che torna a scontare il suo imperdonabile adulterio. Una sirena del male. Di un altro tempo. Di un altro posto. Di un altrove che nasce dal futuro. E che nel passato potrà sempre ripetersi.
Robbe Grillet non tradisce il suo vero mondo: quello letterario delle necessarie anomalie, inevitabili incongruenze per decifrare il mistero della vita. Il pianeta di Marienbad, di Morel, non lo abbandona anche stavolta, dopo oltre dieci anni di attesa dal suo ultimo film. Ma ecco il segno del cambiamento, della strada da lungo interrotta e ripresa qui con altri mutamenti: il sogno preannunciato da tempo ma sotteso ("Slittamenti progressivi del piacere") assume sembianze di carne, di corpi pungolati dal martirio, lacerati lentamente dalla punta ingorda e sessuosa del pugnale. L'estetica del masochismo non avrebbe mai potuto esporsi in un film con così tanta raffinatezza di sguardi e apprensioni, sostenuta dal rigore scarno e arcaico dei paesaggi e degli ambienti. "La grazia si prende finalmente la rivincita sulla nostra scienza": così Delacroix potrebbe spiegare il senso fisiologico di "C'est Gradiva qui vous appelle", del principio ineffabile che lo nutre ed arricchisce. Quanta struggente melanconia muore e rinasce sul volto disperato di Belkis (la fedele ancella del protagonista), martoriata e dunque sublimata come Butterfly dalle note struggenti di Puccini, prima di sparire. Sparire si, senza morire. Perché nell'opera di Alain Robbe-Grillet non si muore mai e non si è mai nati. Il sogno è la liturgica parabola dell'esistere. La sofferenza l'unico piacere emerso che placa il desiderio col dolore, la vita col ricordo, il tempo con lo spazio. Debitore ma solo per frammenti all'Antonioni di Professione reporter e con luci diafane di giorno alla Zurlini ("Seduto alla sua destra"). Ma è negli interni, "nel labirinto" che indugia il carattere del regista, ammaliato dalla bellezza dei corpi, dello squarcio femmineo inflitto tra i lombi, da madre natura. Robbe-Grillet posa davanti al "cavalletto" (di magrittiana memoria infranto sul panorama) la sua stessa immagine, il suo stesso universo. Che non importa se sia cinema o altro. Importa sia pensiero, flusso costante di malessere, forma perversa e corrotta. Ci resteranno a fine proiezione forse al polso segni di catene, la paura di non poterci liberare dal nostro spazio-tempo. L'incertezza di un'appartenenza al mondo e agli altri che ci rovina il cuore ( "tutte le nostre notti sono sempre e comunque la stessa notte"). Ma a questo non c'è scampo ("i sogni sono strettamente legati alla polizia"). Forse si affaccia una chimera: restare così indifferenti, a fare bene il nostro ruolo. Semplici impostori, artisti del male: maledetti commédiens de rêves.