VENEZIA 63 – "Finito il tempo in cui ogni cinematografia restava chiusa nel proprio steccato". Incontro con Vittorio De Seta

Esce oggi nelle sale italiane, distribuito dall'Istituto Luce, “Lettere dal Sahara”, l'ultimo film di Vittorio De Seta presentato fuori Concorso alla Mostra. Alla conferenza stampa il regista racconta la necessità di un lavoro che continuamente si ridefinisce e si confronta con le diversità

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Esce oggi nelle sale italiane, distribuito dall'Istituto Luce, Lettere dal Sahara, l'ultimo film di Vittorio De Seta presentato fuori Concorso alla Mostra e centrato sul tema dell'immigrazione. Alla conferenza il regista racconta la necessità di un lavoro che continuamente si ridefinisce e si confronta con le diversità, unica condizione possibile se si vuole cercare di raccontare la realtà.

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In Lettere dal Sahara, gli elementi di fiction sono mescolati alla realtà. Come ha utilizzato la sua esperienza nel documentario per questo film? Come ha lavorato sui personaggi?


Vittorio De Seta: La sceneggiatura scritta a tavolino è solo l'inizio, poi abbiamo dovuto innestarla sulla realtà. Il che ha voluto dire compattarla e adattarla agli attori, ai luoghi, agli ambienti. Mi considero un evoluzionista, lavoro 'in progress'…


 


Il cast: si tratta di esordienti o di professionisti? E che progetti ci sono per il futuro?


Vittorio De Seta: Per quanto riguarda gli attori senegalesi, li abbiamo presi dalla 'vita' per un motivo fondamentale: dovevano parlare italiano. Il protagonista, Djbril Kebe, è un operaio, ha fatto studi universitari, parla quattro lingue ed è un esperto di computer…quindi siamo stati anche fortunati, perché abbiamo avuto davvero la possibilità di descrivere con i suoi occhi l'Italia da Sud a Nord…Altri attori, come ad esempio Paola Rondo, sono invece professionisti. Sicuramente non ci siamo imposti un criterio preliminare nella selezione del cast.


Djbril Kebe: Attualmente sono amministratore di rete per la Cisco System, i miei progetti ruotano soprattutto intorno a questo, sto facendo degli stage. Ma il lavoro con De Seta mi ha dato l'occasione di formarmi anche per il cinema, e ho girato un altro film, La rivale di Carlo Pisanu.


 


Il film è davvero parallelo alla realtà, e in questi giorni stanno accadendo le stesse cose che vediamo sullo schermo. Che valore ha allora la riscoperta del documentario sociale, anche attraverso altri canali come l'home video? Che tipo di diffusione avete in mente?


Vittorio De Seta: L'Istituto Luce sta lavorando con grande entusiasmo. Scegliere di rappresentare una realtà drammatica in atto è una grande responsabilità. La prima sceneggiatura ho scritta otto anni fa, e c'erano già gli sbarchi a Lampedusa…Sono convinto che bisogna dire la verità. Non vorrei parlare di evasione, ma cinema e televisione si muovono spesso sul piano virtuale. Noi cerchiamo di 'dire' la realtà. Ad esempio, quando il protagonista incontra il cugino, non era possibile che parlassero in italiano…in effetti il 60% del film è in senegalese, e il miglior complimento che ho ricevuto è stato proprio questo: "Poteva essere un film di un regista senegalese". Io credo che sia finito il tempo in cui ogni cinematografia restava confinata nel proprio steccato. Sono andato in Senegal, ho girato con i registi senegalesi, io non li capivo, loro mi travisavano, ma alla fine è indubbio che siano loro i co-autori del film…Secondo me non esiste più il regista-demiurgo, quello che ha tutto in testa fin dall'inizio delle riprese.


 


Se ci fosse un Lettere dal Sahara 2, il protagonista sarebbe in Europa o in Africa?


Vittorio De Seta: In Africa, senz'altro. Comunque, di fronte a un fenomeno così vasto come quello dell'immigrazione, abbiamo due strade: la prima è quella di chiuderci, la seconda è quella di cercare il dialogo e il confronto. Questa secondo me è l'unica possibilità. Altrimenti siamo finiti. Io credo che saremo salvati dagli stranieri. Forse sarò iperbolico, o rischio di non usare troppo la logica, ma questo è quello che sento…


 


Perché il Senegal e non altri Paesi?


Le scelte non sono sempre razionali, si è trattato soprattutto di istinto. All'inizio il protagonista doveva essere marocchino. Poi ho pensato che l'Africa nera, islamica, potesse essere più rappresentativa. E si è rivelata una scelta felice – la collaborazione degli interpreti è stata preziosa, perché avevamo a che fare con una realtà che non conoscevamo, loro ce l'hanno detta e noi abbiamo cercato di tradurla.


 


Qual è l'origine del titolo?


Ha un significato per me metaforico. Perché noi, nella nostra presunzione occidentale, tendiamo sempre a pensare che il resto del mondo sia una specie di deserto…


 

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