VENEZIA 63 – "Non ci sono scuole nel cinema. Io esprimo ciò che vedo" Incontro con Apichatpong Weerasethakul

ll regista thailandese presenta in concorso "Sang sattawat", un film sulla trasformazione e il cambiamento. Ci parla del suo ultimo lavoro, che, tra l'altro, prende parte al progetto viennese "New Hope".

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Il thailandese Apitchapong Weerasethakul è conosciuto dal pubblico occidentale per Tropical Malady , presentato a Cannes 2004. Torna quest'anno in concorso ad un Festival europeo col suo quarto lungometraggio, Sang sattawat (Syndromes and a Century). Un film misterioso, dallo stile lento e contemplativo. Abbiamo incontrato il regista in conferenza stampa, insieme al produttore esecutivo Simon Field e ad uno dei protagonisti del film, Sakda Kaewbuadee.

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Iniziamo con un chiarimento. Il suo film è quasi interamente ambientato in ospedale, in uno spazio diagnostico. E' come se lei fosse un medico che ascolta il polso del mondo, quasi a misurarne lo stato di salute?


 


E' una domanda interessante. Ma in realtà non ho pensato a questi interrogativi filosofici mentre giravo. Il fatto è che l'ambiente dell'ospedale mi affascina, mi fa tornare alla memoria ricordi d'infanzia, visto che i miei genitori erano entrambi medici. Sono abituato alla malattia.


 


E allora qual era il suo intento principale. Un film sulla malattia è una sorta di commento politico?


 


No. Non c'è alcuna dichiarazione politica in Sang sattawat. Piuttosto è un film sulla trasformazione, sui cambiamenti positivi. Il finale, ad esempio, con tutta quella gente che fa aerobica, esempio, vuole esprimere una speranza, un passaggio dalla malattia alla salute.


 


Qual è la sua posizione rispetto al cinema thailendese contemporaneo? Sente di appartenere ad una scuola oppure ha avuto una formazione individuale.


 


In realtà io ho studiato negli Stati Uniti. E' lì che mi sono formato tecnicamente. Per quanto riguarda il cinema thai, mi affascina molto quello del passato, ma non credo che esista una scuola. Anzi, non credo che esista una scuola del cinema. Non credo alle etichette, alla formule. Esprimo semplicemente ciò che vedo.


 


Mr. Field, sappiamo che il film partecipa al progetto "New Hope". Ce ne può parlare meglio? E lei, Mr. Apichatpong, come mai ha deciso di prendere parte al progetto.


 


S. F. New Hope è un progetto che parte dalla città di Vienna. In onore delle celebrazioni mozartiane dello scorso anno, si è deciso di ricordare il grande compositore non attraverso le sue opere, ma attraverso quelle di artisti contemporanei, capaci di rinnovare lo spirito mozartiano. E vi hanno preso parte vari personaggi, della musica, del cinema, delle arti figurative. Qui a Venezia sono tre i film che partecipano al progetto: questo Sang sattawat, I Don't Want to Sleep Alone di Tsai Ming-liang e Daratt di Mahamat-Saleh Haroun.


 


A. W. Io non ero un grande fan della musica classica. Ma Mozart mi ha sempre colpito, perché in molte sue opere, come Il flauto magico, ha espresso proprio quell'idea del cambiamento e della trasformazione che a me interessava. Perciò ho accettato di prendere parte al progetto.


 


La particolarità del film è quella di tornare su se stesso, ripresentando quasi le stesse situazioni. E' un film in due parti. Qual è il rapporto tra la prima e la seconda?


 


E' vero è un film in due parti, nel quale ho cercato di esprimere due punti di vista. La prima è un omaggio a mia madre, e perciò la prospettiva adottato dovrebbe esprimere la sua innocenza, la sua spontaneità. La seconda parte, invece, si pone dalla prospettiva di mio padre, e perciò vuole essere più complessa, problematica, com'era il suo carattere.

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