VENEZIA 63 – "Opera Jawa", di Garin Nugroho (Orizzonti)

Sguardo ossimoro in statuario divenire: ogni inquadratura dell'autore indonesiano svela temporalità diverse. Rarefazione e pressione del tempo, tensione fra le immagini che fissano l'unicità dell'esistenza e lo scorrere delle stagioni. Forse è il film più politico dell'autore, che amiamo sempre più.

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Ci stiamo affezionando sempre più al cinema del regista indonesiano, ormai ospite fisso dei grandi festival internazionali. Sicuramente trai più grandi registi della sua terra, Garin Nugroho, è tra gli autori del terzo mo(n)do di girare. Ci lascia superare l'astrattezza di maniera, facendoci aderire con la terra da cui proviene. Raccoglie le briciole dei disastri naturali e compatta i ricordi di una cultura millenaria, attraverso i simboli e non al di sopra di essi. Il suo nono film è una sorta di musical sui generis ispirato alla famosa storia del rapimento di Sinta, tratto dal "Ramayana", un grande classico della letteratura asiatica. Appassionato triangolo amoroso tra tre ex ballerini che in passato hanno rappresentato proprio questa storia. Un triangolo che condurrà inesorabilmente a conflitti e violenze. Setio e Sinta, marito e moglie, sono ceramisti, ma quando la loro attività fallisce Setio deve lasciare la città e il potente e spietato mercante Ludico, da sempre innamorato della bellissima moglie, coglie l'opportunità per rapirla e sedurla. I due uomini iniziano a battersi per Siti in un esortabile crescendo di violenza. Girato in chiave moderna, la storia si sviluppa così a base di "gamelan", percussionisti locali, e attraverso danze tipiche javanesi e balinesi. Come un'opera lirica trasposta al cinema, Nugroho esplora la disintegrazione di un mondo immenso che nessun reportage esterno potrebbe eguagliare. Tra coreografie imponenti il cinema si perde nel punto cieco della visione, di fronte al quale restiamo impassibili, immunizzati, così per incanto si presentano carichi si simbolismo. Ogni oggetto apparentemente superfluo per Nugroho si fa soggetto cinematografico, rivelando nuove composizioni di elementi reali. Cinema che aliena l'ambiente rappresentandolo. Cinema che chiede allo sguardo una nuova forma di partecipazione: spostare l'occhio dal corporeo per penetrare nello spirituale e moltiplicare le percezioni sensoriali. Sguardo ossimoro in statuario divenire: ogni inquadratura dell'autore indonesiano svela temporalità diverse. Rarefazione e pressione del tempo, tensione fra le immagini che fissano l'unicità dell'esistenza e lo scorrere dei giorni. Nugroho lascia passare la vita attraverso l'arte, ma l'arte esce da se stessa verso la vita per poi rientrare costantemente in se stessa. Splendida la sequenza finale, sulla spiaggia, con le onde dell'oceano alte sullo sfondo, ad evocare presagi di morte. Si sta consumando un delitto, l'atto finale della tragedia e quelle onde (come in Serambi, documentario sul dopo tsuanami, presentato quest'anno a Cannes) del presente che sradicano le radici del passato e accumulano corpi, rifiuti, nel film forse più politico del regista.

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