VENEZIA 63 – "Ostrov – The Island" di Pavel Lounguine (Fuori concorso)

Lounguine si confronta con i temi della colpa e della redenzione, della follia e della santità. Lo fa cercando una propria strada. Sceglie di "raggelare" la sua storia, immergendo i corpi in una solitudine artica e perseguendo una sorta di ascetismo dello sguardo

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Russia: terra di santi e navigatori. E' quello che viene da pensare guardando Ostrov, l'ultimo film di Pavel Lounguine, che, fuori concorso, chiude la Mostra di Venezia. Una parabola glaciale sul peccato, la follia e la santità. Un marinaio dell'esercito sovietico, addetto alle caldaie su un'imbarcazione, viene costretto dai nazisti a far fuoco sul proprio capitano. Alcuni anni dopo, ritroviamo lo stesso uomo in un convento ortodosso su un'isola sperduta. E' diventato padre Anatoly, uno "staret", un taumaturgo, un vecchio monaco un po' folle e indisciplinato, ma capace di compiere miracoli. Nel suo cuore, però, si agita il tormento per la grave colpa del passato. Un uomo scisso, lacerato, che vive il contrasto tra  un'estenuante ricerca di purezza e il nero del carbone delle caldaie in cui lavora. Peccato e redenzione si mescolano sino a delineare la possibilità di una santità rivoluzionaria, "eretica" e "fuorilegge". La fede è paradosso e scandalo, insegnava Kierkgaard. E il cinema si è spesso confrontato con l'argomento: da l'Ordet di Dreyer sino ad arrivare ai dilemmi dell'opera di Ferrara. Lounguine cerca la sua strada. Seppure adottandoli, non indulge in eccessivi simbolismi. Sceglie piuttosto di raggelare la sua storia, immergendo i corpi in una solitudine artica. Lo sguardo si fa ghiaccio. Colori freddi, luci boreali, dominanti blu e grigie da un lato si addicono appieno agli ambienti e ai paesaggi, dall'altro servono a frenare le potenzialità drammatiche della vicenda. Siamo lontani dal gusto smaccatamente provocatorio, volutamente disturbante, alla Von Triers. Tutto il vuoto, il deserto intorno contribuisce ad accrescere la concentrazione, come in una sorta di ascetismo dello sguardo. Il problema, semmai, è che Lounguine non è Bresson. Il suo scavo interiore perde a volte d'efficacia. Se la figura di padre Anatoly è potente, tormentata (grazie anche alla gamma d'espressioni di Pyotr Mamonov), non altrettanto si può dire degli altri personaggi, che, per l'esigenza di mettere a fuoco l'essenziale, l'anima del protagonista, rimangono quasi semplici accessori. E soprattutto nel finale, al momento della resa dei conti, si ha una sensazione di superficialità. Come se i sentimenti fossero seppelliti sotto la coltre di neve.

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