VENEZIA 63 – "Quei loro incontri", di Jean-Marie Straub, Danièle Huillet

Ritorno sugli stessi luoghi (la campagna toscana), sugli stessi autori (Pavese) e sugli stessi corpi e voci (il gruppo di attori-non-attori che, da Sicilia in poi, abitano le loro inquadrature) in un incontro nel tempo e nello spazio, esempio di cinema sonoro e materiale, straordinario atto di creazione.

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È da qualche tempo che gli Straub ritornano, in più di un senso. Ritornano sugli stessi luoghi (la campagna toscana), sugli stessi autori (Pavese) e sugli stessi corpi e voci (il gruppo di attori-non-attori che, da Sicilia in poi, abitano le loro inquadrature). Il ritorno, o la ripetizione, sono però apparenti. Il ritorno ai Dialoghi con Leucò (gli ultimi cinque dialoghi del testo forse meno conosciuto di Pavese) dopo La nube e la resistenza è infatti il modo per fare, ancora una volta (questo è allora il senso possibile di un ritorno), del cinema. Raccontare, attraverso i dialoghi di figure mitiche, di divinità immortali, la preziosa vita degli uomini, il loro saper fare e costruire, il loro saper rendere la terra un luogo ospitale e carico di frutti, il loro poter vivere gli istanti pieni di un'esistenza proprio perché destinata a finire, è ciò che sconvolge e scuote le anime immobili perché eterne degli dei. È in questa semplice eppure straordinaria consapevolezza che ogni movimento all'interno dell'inquadratura acquista la forza di un evento. Il verde dei boschi, il suono del fogliame e del vento, il canto dei mille animali che abitano la natura. Ognuna di queste cose diventa il terreno, lo spazio sonoro all'interno del quale si dispiegano le parole ritmate dei personaggi, l'evento unico e irripetibile del cinema, che gli Straub non hanno mai smesso di mostrare e, insieme, di vivere. Nella solitudine dei dialoghi, di una umanità che rimane il fuori campo continuo del film, rimangono però le tracce evidenti del luogo che gli uomini abitano, che ne rende comprensibile la vita, una vita non solitaria, non isolata, ma, al contrario, parte di un tutto, di una comunità di uomini e della natura che li ospita. È così che l'ultima divinità può esclamare che ciò che più invidia agli uomini sono proprio "quei loro incontri", quel loro poter stare insieme, incontrarsi appunto, in un tempo che non è più divino ma mortale e, proprio per questo denso di significato. Incontrarsi e operare, nel tempo e nello spazio, come le (non)immagini finali del film, uno schermo nero dal quale emerge la forza sonora e materiale di uno dei quartetti di Beethoven, esempio sublime e straordinario di creazione, di ciò che appartiene propriamente all'uomo più che al dio.

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