VENEZIA 63 – "The Black Dahlia", di Brian De Palma

E' un De Palma che sfugge nella sua imperfezione strutturale, quello di The Black Dahlia, carico di meraviglia ma ponderato nell'umore, lento nei ritmi, controllato nel passo che guida ogni movimento di macchina… Il film vive nell'ombra dei desideri altrui, ovvero alla luce delle paure, delle colpe, delle sconfitte, delle verità travestite da menzogne

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Zone d'ombra, frammenti di verità disperse nel cono di luce nera profuso da Betty Short, femme fatale in doppio, triplo, quadruplo corpo: cadavere oltraggiato, segato in due, costretto a ridere come Conrad Veidt…; fantasma in bianco e nero, baluginante di sincerità e recitazione dai provini strappati al sogno hollywoodiano…; dark lady desiderata e violata nelle notti di Los Angeles da donne e uomini…; fantasma che si rispecchia nella somiglianza con la ricca Madeleine Linscott… The Black Dahlia vive nell'ombra dei desideri altrui, ovvero alla luce delle paure, delle colpe, delle sconfitte, delle verità travestite da menzogne… James Ellroy l'aveva presa dalle sconvolte cronache degli anni '40, l'aveva sovrapposta in una drammatica dissolvenza incrociata sul corpo di sua madre – "la Rossa", come la chiama – strangolata e ritrovata sul ciglio di una strada quando lui era ancora un ragazzino, l'aveva elevata a protagonista di un romanzo-capolavoro che era "un'ode a Elizabeth Short e un abbraccio frettoloso a mia madre" (parole sue, nel testo che accompagna il film sul pressbook). Brian De Palma la prende dalle pagine di Ellroy e (complice la sceneggiatura dell'amaro Josh Friedman, lo stesso della spielberghiana Guerra dei mondi di Spielberg) la trasforma in un'onda d'urto destinata a travolgere la fantasia in un impatto fatto di fantasmatica verità: Betty Short è un corpo negato e sovraesposto di un film che traduce in architetture i fantasmi. Un film che produce corpi che abitano in altorilievo la scena di un delitto riscritto tutto nella mente dei suoi indagatori. Poliziotti e dark ladies che, dietro il costume anni '40 (molto più poroso e permeabile delle sagomature traslucide messe in scena da Curtis Hanson nel sopravvalutato L.A. Confidential), vivono l'ombra della colpa come fosse l'unica terza dimensione cui ambire…

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E' un De Palma che sfugge nella sua imperfezione strutturale, quello di The Black Dahlia, carico di meraviglia ma ponderato nell'umore, lento nei ritmi, controllato nel passo che guida ogni movimento di macchina… Un film di corpi mossi dall'ambizione ma paralizzati nel loro destino, stretto nella morsa di un filmare che vede prima di tutto l'aura oscura proiettata dai corpi. La straordinaria sequenza dell'agguato a Lee Blanchard è un saggio per corpi ed ombre, incredibile nella traiettoria catatonica di ogni sguardo, nella tensione paralizzata dei gesti, nel gioco tra buio e luce, tra vedere e non vedere, tra protendersi e essere trattenuti che unisce e separa i due protagonisti: praticamente la riscrittura in segno opposto della celebre sequenza della stazione in The Untouchables. De Palma persiste nel suo suo cinema drogato di sguardo, sublimato nella transizione tra sogno e realtà che scavalca la materia dei corpi, dei set… La Dalia Nera non è che l'esposizione infranta di una materia fatta di desiderio: proviene dalla cronaca degli anni 40 e si disperde nel set impossibile di un provino in cui Betty Short è troppo vera – troppo se stessa – per poter recitare; oppure nel set di un filmetto hard, disperso in una baracca alle pendici della vecchia Hollywood… La verità sta lì, oppure altrove… nel corpo non doppio ma fatto in due e svuotato di vita trovato in un campo alla periferia di Los Angeles.


 

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