VENEZIA 63 – Urla strazianti dal passato e dal futuro: "Retribution" di Kiyoshi Kurosawa (Fuori Concorso) e "Children of Men" di Alfonso Cuaron (Concorso)
In gioco è il tempo, ovvero la vita. Il passato, il futuro. Di cosa siamo fatti, di quali incubi siamo capaci, cosa dimentichiamo e cosa diventeremo? Dai tremori continui di "Retribution", film-terremoto, si esce agghiacciati e spaventati. Mentre Cuaron vede con "nero ottimismo" il futuro dell'umanità, oltre la "fine del mondo".
In una edizione del Festival, almeno per quel che si è vissuto in questi primi cinque giorni, di straordinaria qualità, dove abbiamo visto almeno sei grandissimi film (De Palma, Bensaidi, Lee, Verhoeven, Resnais, Satoshi) inframmezzati da altri di ottima fattura (il doc su Lennon, Daratt, Frears stesso), arrivano oggi due film che sembrano davvero dare come un senso "oltre" a questa Mostra del Cinema. Urli che dal passato sparano verso il futuro, sgretolando illusione e cecità del presente.
Due grandi cineasti misconosciuti, Kiyoshi Kurosawa e Alfonso Cuaròn, che da anni realizzano grandissimi film tra l'assoluta indifferenza della critica (RECUPERATEVI in fretta quel capolavoro che è Pulse, uscito in sordina in agosto per anticipare il remake hollywoodiano, ma anche quel dirottamento della visione che era Paradiso Perduto…), portano il loro sguardo anomalo e penetrante oltre le angustie del presente, per meglio comprenderlo e stritolarlo, per uscire dall'asfissia che genera quotidianamente i nostri mostri.
In gioco è il tempo, ovvero la vita. Il passato, il futuro. Di cosa siamo fatti, di quali incubi siamo capaci, di cosa dimentichiamo e cosa diventeremo? Andiamo avanti ogni giorno dimenticando, perché il ricordo, il passato, lentamente sembra ucciderci. Strategia a breve termine di sopravvivenza. Fallace. Perché la vita è fatta di frammenti che ci ritornano dentro, e i nostri corpi del passato non ci abbandonano mai. Anche se pensiamo di essercene liberati, convinti di aver lasciato alle nostre spalle le insicurezze, gli errori, forse gli orrori del tempo andato. E' quello che sembra pensare – in Retribution – anche il detective Yoshioka (Koji Yakusho), esperto poliziotto della omicidi di Tokyo, che indaga sull'omicidio di una giovane ragazza, ritrovata affogata nelle vicinanze del porto. Yoshioka è un vero professionista e il lavoro è la sua vita, intervallato dalle fugaci presenze della sua ragazza Harue. Ma questo delitto è diverso del solito perché, tutti gli indizi della sua indagine sembrano riportare proprio allo stesso detective. E, come dal nulla, improvvisamente il fantasma della "donna in rosso" comincia a tormentare Yoshioka. Tra apparizioni del fantasma, indagine e altri delitti, la storia di Retribution si avvolge in un delirio fantasmatico, dove sempre più – come nel magnifico Paprika – facciamo fatica a distinguere il sogno, l'incubo, dalla realtà. E questo fantasma di rosso vestito non sembra più essere l'ossessione di chi ha traumatizzato la donna da viva, ma quasi una sorta di "vendicatore", con il compito di tormentare e punire chi si è disinteressato dell'altro, gli egoisti del cuore. "Può un fantasma andare dalla persona sbagliata?" chiede ingenuamente il detective allo psicologo che lo prende in cura, battuta che spiazza e diverte durante la visione ma che rivela la difficoltà del protagonista di capire le proprie responsabilità di essere umano. Poi il film si "spiega", nel caos degli incubi e visioni. Una vecchia casa di riposo psichiatrica ormai disabitata e semi distrutta, la ragazza di Yoshioka che in realtà è anch'essa un fantasma, corpi che si materializzano e smaterializzano, ombre ed ossa, e fantasmi che giustiziano i vivi. Un'interpretazione. Ma come Pulse era un viaggio nella fine del mondo, disperato, urlante, straziante e tenebroso – eppure tenero e fortissimamente speranzoso – questo Retribution sembra ulteriormente voler scombinare le carte gia nebulose della narrazione. E i conti non tornano. Alcuni muoiono. Il protagonista riceve invece un perdono che sembra essere una vera e propria "condanna a vita". E dai tremori continui di questo film-terremoto si esce agghiacciati e spaventati, come abbandonati dal mondo, nella solitudine di una Tokyo che mai come qui appare grigia e immersa in un'ombra oscura.
"Io credo che bisogna guardarsi indietro e fare pace con il passato per poter andare avanti", ci dice Kyoshi Kurosawa. Senza questa "pace fondamentale" non è possibile immaginarsi alcun futuro.
Futuro da cui arriva invece il Children of Men di Cuaron. Una civiltà, quella del 2027, ormai destinata alla scomparsa, non distrutta da una nuova Era Glaciale né da un disastro nucleare o ambientale. Nulla di tutto ciò: l'uomo e le donne, hanno smesso di riprodursi. Improvvisamente. Senza spiegazioni. Le donne hanno cominciato ad abortire una dopo l'altra e il film si apre con l'omicidio dell'uomo più giovane del pianeta (ormai in preda a folli guerre civili) di "appena" 18 anni. E' come se il corpo-mondo reagisse follemente di fronte alla diagnosi di un male incurabile. Fuggiaschi e prigioni dappertutto, repressioni e guerriglie. Il male di vivere senza futuro esplode in tutto il suo sanguinoso disegno. Theo (Clive Owen) sembra "già morto", una sorta di ombra che cammina. E solo il suo vecchio amico Jasper (Micheal Caine), che gli ricorda i bei tempi, sembra poterlo ancora, per un secondo, ravvivare. All'improvviso però, sotto la forma camuffata di una rapimento, viene però richiamato dalla sua ex moglie Julian (Julianne Moore), che non vede da quindici anni, quando il dolore per la perdita del loro bambino li separò per sempre. Mentre Theo è chiuso nel suo solitario dolore, Julian continua a combattere per un mondo migliore, e chiede a Theo di aiutarla a procurargli dei documenti di transito per una giovane profuga che deve lasciare il paese. Theo non sa perché Julian vuole il suo aiuto per questa ragazza, Kee (Clare-Hope Ashitey), ma un po' per soldi un po' per nostalgia decide di aiutarla, quando un incidente durante il tragitto cambia il segno passionale del suo "intervento". Che si trasforma in una fuga senza fine, stretto stretto a questa giovane donna di colore che porta in grembo il futuro dell'umanità. E in una lotta senza esclusione di colpi, in un mondo impazzito e sanguinario che Cuaron, come per incanto, riesce a fermare solo in un unico, straziante momento: quando i soldati che stanno assalendo la casa con i ribelli e i profughi si fermano tutti di fronte alla vista della ragazza che porta tra le sue braccia la neonata in lacrime: sono pochi, lunghissimi, interminabili e indimenticabili secondi, prima che la guerra riprenda inesorabile, ma dentro quella sequenza c'è tutto l'amore del mondo, tutta la speranza del mondo. In quel piccolo corpo è racchiusa tutta la vita. E mentre ci si uccide l'un l'altro ci si ferma di fronte alla visione di una (nuova) vita. Cuaron sembra parlarci del futuro ma in realtà vuole parlarci del presente, possibilmente con l'occhio rivolto ad un passato che non sembra esserci più. Quello di comunità che vivevano solidarmente, quello di famiglie che si dedicavano alla messa al mondo e alla crescita dei bambini, quella dove la vita che nasceva era "necessaria", aria ossigeno vitale indispensabile per dare un senso alla propria esistenza. Era una vita celebrata dalle dure discipline del mondo della produzione del capitalismo, che aveva ancora bisogno di "nuclei forti" per rigenerare se stesso. Oggi non più. E la parcellizzazione di uomini, donne, corpi, lavoro, produzione, sentimenti ecc. sembra essere divenuta la "cifra esistenziale" del "nuovo mondo. E Cuaron sembra volgere lo sguardo verso un passato dove, per usare la battuta della barzelletta di Jaspers, non ci si consolava del buon sapore, a tavola, delle cicogne.