VENEZIA 64 – "24 Mesures", di Jalil Lespert (Settimana Internazionale della Critica)

24 MesuresL’umanità è per sua natura destinata a fare i conti con la solitudine e costretta a vagare per un tempo indefinito, nell’attesa del prossimo fortuito incontro. Jalil Lespert insiste dall’inizio alla fine su questa idea, basando il suo primo lungometraggio in concorso alla Settimana Internazionale della Critica, su quattro storie legate l’una all’altra in corso d’opera.
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24 MesuresUomini e donne intrappolati in un presente dal passato ingombrante, fotografati nell’attimo che precede la fuga. Il tempo dilatato di una notte, quella della vigilia di Natale, come luogo privilegiato per fare i conti con le proprie angosce e rovesciare all’esterno tutta quella rabbia tenuta nascosta per troppo tempo. L’esplosione è quasi indolore, non lascia dietro di sé nient’altro che macerie, per dare spazio ad un futuro da (ri)costruire, liberi dall’oppressione delle proprie paure, anche se solo per poco. È il viaggio ad essere sofferto, ricolmo di dolore e delusione, che schiacciano l’anima fino a renderla irriconoscibile, soffocata dagli eventi. Eventi più o meni casuali, che si sommano l’uno all’altro, agendo su ciascun individuo, segnandolo per sempre. Casuali come le aggregazioni di materia che compongono ogni essere umano, destinato a scontrarsi con altra materia, per due ore, due giorni, un anno e poi più nulla. Casuali come le note, sempre uguali a sé stesse, eppure capaci di dare vita a melodie improvvisate sempre nuove.
Sono il simbolo dell’intera umanità perciò, i personaggi disperati che popolano i corridoi di 24 Mesures, primo lungometraggio del francese Jalil Lespert, in concorso alla Settimana Internazionale della Critica del Cinema di Venezia. Una voce fuori campo lo conferma, chiarendo il senso della pellicola in pochi attimi. È come fosse un punto d’osservazione privilegiato sul mondo, fatto di atomi che cozzano l’uno contro l’altro, all’infinito. Una macchina da presa che osserva perciò, i movimenti di una prostituta nel giorno della sua “ribellione” attraverso i cunicoli angusti della sua coscienza; che segue i passi di una donna in cerca di un contatto con sua madre; che filma la vendetta, atto finale di un’esistenza vissuta nell’ombra; che impallidisce di fronte al rumore sordo di un colpo di pistola. Piani sequenza che non limitano gli spostamenti, ma impediscono all’occhio di seguire percorsi alternativi.
Le sequenze di 24 Mesures, quasi interamente girate in notturna, illuminate da una luce fredda e impietosa, rendono la fuga quasi necessaria e non solo per i personaggi. Non si soffoca, ma si respira a fatica, sommersi dal peso di un passato sconosciuto e per questo ancora più pericoloso. Un ritmo lento e inesorabile che procede in sordina, monocorde. Un macigno che preme sul cuore, impossibile sollevarlo. È la morte a portare sollievo, l’unica in grado di sbarazzarsi di quel peso per sempre.
L’umanità è per sua natura destinata a fare i conti con la solitudine e costretta a vagare per un tempo indefinito, nell’attesa del prossimo fortuito incontro. Jalil Lespert insiste dall’inizio alla fine su questa idea, basando la sua pellicola su quattro storie legate l’una all’altra in corso d’opera. Non cerca di sorprendere, né di apparire come dispensatore di una verità rivoluzionaria: la sua è voglia di raccontare.
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