VENEZIA 64 – "Cleópatra", di Júlio Bressane (Fuori Concorso)

cleopatraCleópatra, per la prima volta in lingua portoghese, è diretta da uno dei più grandi registi brasiliani del Cinema Novo. Capolavoro di lirica iconografia: la tragedia non è narrazione di eventi luttuosi: è pensiero in azione. Non più e solo affresco, la “cinemanzia” di Bressane è arte magica di comprensione e captazione dell’illusione, è profezia che vede lontano, troppo vicino
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cleopatraCleopatra, uno dei maggiori miti femminili dell’Antichità rappresentato per la prima volta in lingua portoghese, da uno dei più grandi registi brasiliani del Cinema Novo, amatissimo anche in Italia, soprattutto dal Torino Film festival del dimissionario Turigliatto e dalla critica militante. Bressane mette a confronto il mondo greco e quello egizio partendo dalla visione multiforme del personaggio e dalla sua vita privata: una donna in cui il maggior fascino stava nell’erudizione e nella diplomazia. Figlia di Tolomeo, Cleopatra ha vissuto tra i libri della biblioteca di Alessandria e le sue due grandi passioni: Giulio Cesare e Marco Aurelio. Bressane sintetizza il progetto come un’invenzione e un’appropriazione del mito descritto da Plutarco in Vita degli uomini illustri. È la versione antica di Cleopatra, gloria di quella generazione, e della donna che aveva il dominio divino dei sensi. Alessandra Negrini ha interpretato la regina, volto popolarissimo in Sud America soprattutto per aver partecipato a diverse serie TV. Bressane concilia nella sua persona eredità storica, vocazione politica, audacia strategica e ambizione smisurata. Più che una Cleopatra epica, è una donna lirica, i cui maggiori scontri avvengono dentro lei stessa. Capolavoro iconografico, frammenti pittorici visivamente devastanti assemblati in soli 19 giorni, dopo cinque anni di ricerche e studi. Tra i grandi sassi del Forte di Copacabana e scenografie ricostruite, il mito si nutre del quotidiano, della necessità di misurarsi con la realtà storica. Bressane si muove nell’immagine in cui il suo stesso fascino resiste alla trasformazione in figura. Il nostro piacere a guardare è soltanto una tappa, superata nel conflitto della figura. Tratti di esaltazione possibili anche nel tempo della tragedia: della percezione, al di là dell’intelligenza abituale del mondo cinematografico e di sé, di un’intelligenza disabituale, in cui anche il nuovo trova luogo e parola. La tragedia di Bressane però non è la narrazione di eventi luttuosi: è un pensiero in azione. È il pensiero che scopre che il rapporto dell’uomo con il mondo e con il divino si realizza dentro il conflitto. Si può essere annientati in questa lotta, ma non vinti, perché la vittoria di un contendente significherebbe la fine del pensiero tragico stesso, che si muove dentro il conflitto capace di mettere in discussione tutta la rappresentazione mitica e simbolica di una civiltà. Lo spazio scenico “rubato”, assorbito dall’arte figurativa, rende familiare e dicibile lo spaesamento, la sensazione di angoscia di un mondo che appare impercorribile, inabitabile, attraversato dal brivido di una possibile catastrofe incombente. A Venezia, per qualche ora, la vertigine del moderno sguardo si è impossessato delle nostri menti che non sopportano il disordine perché incapaci di pensarlo: per un attimo solo però ci si è lasciati dominare da un ordine misterioso, percepito come disordine, che pure abita nel meraviglioso, nella contraddizione che si manifesta nel presente. È necessario per fare tutto questo, avanzare, perdersi nel particolare, nell’accidentale e dilatato attimo, nella sospensione estatica in cui spirito e corpo diventano indiscernibili, come unica voce che si eleva dal nero reame. Non più e solo affresco, la “cinemanzia” di Julio Bressane è arte magica di comprensione e captazione dell’illusione, è profezia che vede lontano, troppo vicino.
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