VENEZIA 64 – "Heya fawda" di Youssef Chahine e Khaled Youssef (Concorso)

HEYA FAWDATutt’altro che piattamente gratificante, la scatenata epopea di Chahine, Maestro attaccatissimo ai codici del cinema popolare più sanguigno quanto capace di reinventarli problematicamente, sballotta lo spettatore nei meandri della contraddizione, travolgendolo con una jouissance indomabile
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HEYA FAWDADopo l’entusiasmante incursione di Bressane (“Cleopatra”) nell’eterna ambiguità del legame tra eros e potere, è ancora l’Egitto ad offrirci un’altra variazione su questo tema.
È Youssef Chahine a regalarcela, Maestro che ritorna su molto del suo cinema, attaccatissimo ai codici del cinema popolare più sanguigno quanto capace di reinventarli, di restituirgli una problematizzazione viva, mai pacificata.
Questo “Heya fawda” racconta di Nour, ragazza contesa tra il sanguinario Hatem, che tiranneggia a suon di botte e corruzione tutto Choubra (quartiere del Cairo), e l’amato (e integerrimo) sostituto procuratore Cherif. A partire da qui, una fitta serie di diramazioni laterali che di romanzesco ha l’organicità tematica del mondo ricreato, e di feuillettonistico l’arte del colpo basso, che in questo film è quasi una scienza esatta. Il vigore con cui Chahine mescola (spesso all’improvviso) i registri e le tonalità emotive (commedia, melodramma, “impegno”…), esaspera il senso scenico (rinforzando col movimento di macchina quello dei personaggi, o gestendo le sequenze con un netto accento sulla chiusura), o indugia sulle brutalità di Hatem, dà vita a quell’irruzione del desiderio che è poi il cuore del film.
Le tinte forti, fortissime, che prorompono da ogni piega di “Chaos” (questo il titolo internazionale) fanno intravedere la liberazione di un desiderio che nel finale si dà in forme sì grandiose (un’immensa cavalcata popolare redentrice contro la prepotenza della polizia) ma evidentemente contraddittorie. Tutt’altro che piattamente gratificante, l’epopea di Chahine non straborda sopra le righe per vezzeggiare lo spettatore, ma per sballottarlo nei meandri della contraddizione. Forse non con la medesima forza di un “Black book” verhoeveniano (per dire), ma l’apparente naiveté con cui i buoni vincono i cattivi non porta al trionfo: troppe ombre si sono nel frattempo depositate, dall’impossibilità di sconfiggere il potere se non lasciandolo autodistruggere alla desolante constatazione che è Hatem, in fondo, la vittima più inerme degli eventi… e il desiderio stesso imprigiona (gli spogliarelli prezzolati nel carcere e tutto quanto vi si lega) almeno quanto libera.
La tonitruanza tonale di cui si abusa, insomma, non porta né a un manicheismo spensierato né al semplicistico relativismo del “tutti hanno le loro ragioni”: piuttosto, ci obbliga a sporcarci le mani e concepire le due cose insieme, sovrapposte. Un’immagine chiara, viva, limpida, sensuale, come il poster della donna nuda a cui spara Hatem – immagine che però, anche se è un poster bidimensionale, inizia a sanguinare per davvero.

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