VENEZIA 64 – "I'm Not There", di Todd Haines (Concorso)

Todd Haynes prende l’atmosfera del biopic e lo innalza, portandolo in altura, dove la rarefazione dell’aria apre tutti gli altri sensi, oltre lo sguardo. Ed ecco che improvvisamente il cinema (ri)comincia a respirare, tra le note di una canzone, un corpo androgino esplosivo (Kate Blanchett, oro puro), una melodia che si fa respiro generazionale, capace di esprimere tutte le contraddizioni di un’epoca che travalicava, scavalcava il “realismo” per affrontarlo su un terreno nuovo, quello di una “modernità barocca”, che poteva reinventarsi ogni volta in “quadri” diversi, perché all’epoca – gli anni Sessanta – il mondo era ancora tutto “da scoprire”, e ogni quadro era un mondo diverso, una sua possibile ricerca, rappresentazione, sguardo, stato d’animo.
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L’esserci nel negarsi. “Io non sono qui: supposizioni per un film che riguarda Dylan”, così si chiamava la paginetta/progetto che Todd Haynes inviò a Bob Dylan, per convincerlo ad accettare la sua idea di anomalo film biografico. “un film che potesse ampliare i preconcetti e le opinioni iniziali di chi lo guarda… nel classico ambito di una narrazione tradizionale.”  Un personaggio, sei attori, o meglio sei personaggi… e il gioco della mutazione si rappresenta sullo schermo. E solo l’orecchio esperto riesce a distinguere tra interpretazioni dylaniane e cover di altri cantanti/gruppi, in una colonna sonora che appare come la vera struttura portante del film. Sei personaggi, dunque, per cercare di rappresentare le varie sfaccettature, i vari momenti di passaggio della vita del cantautore che si ispirò a Woody Guthrie per la musica e a Rimbaud e Dylan Thomas per le liriche (e il nome).
E’ curiosa e stimolante questa ricerca dei cineasti più “avanzati” (di sguardo, lucidità, capacità teorica, ecc..) sulle forme attuali della rappresentazione. Certo è dai tempi della Nouvelle Vague che realtà, rappresentazione, finzione e realismo sono termini messi in discussione, teorica e concreta, ma fuori dalle sperimentazioni, non dentro il circuito del cinema “ufficiale”. Oggi poi lo scarto appare insondabile, e se la Mostra di Venezia relega nella sezione Orizzonti quel meraviglioso sguardo, tra il nostalgico e il futuro, della Cina mutante di Ja Zhang Ke (il cui titolo, Inutile, sembra anch’esso come questo haynesiano un tentativo di negazione per affermare, ovvero celebrare l’essenza del non-utile, ovvero non funzionale al circuito delle merci, dei tempi ritmi di quello che una volta si chiamava “capitale”), dove il documentario diventa “arte visiva”, spettacolo dei sentimenti, cuori nel quadro, occhio che coglie la mutazione nell’attimo del suo esserci, né prima né dopo…. ecco che Todd Haynes prende l’atmosfera del biopic e lo innalza, portandolo in altura, dove la rarefazione dell’aria apre tutti gli altri sensi, oltre lo sguardo. Ed ecco che improvvisamente il cinema (ri)comincia a respirare, tra le note di una canzone, un corpo androgino esplosivo (Kate Blanchett, oro puro), una melodia che si fa respiro generazionale, capace di esprimere tutte le contraddizioni di un’epoca che travalicava, scavalcava il “realismo” per affrontarlo su un terreno nuovo, quello di una “modernità barocca” (come Haynes definisce la musica di Dylan), che poteva reinventarsi ogni volta in “quadri” diversi, perché all’epoca – gli anni Sessanta – il mondo era ancora tutto “da scoprire”, e ogni quadro era un mondo diverso, una sua possibile ricerca, rappresentazione, sguardo, stato d’animo. Era, ancora, un mondo “analogico”, dove il centro era pur sempre il corpo dell’uomo, anche se preso nell’atto di dolore (della guerra, delle ingiustizie sociali, delle mistificazioni e anche delle esaltazioni “mitologiche” dei fan da sfatare).
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Todd Haynes ha una marcia (interiore) in più, rispetto agli altri artisti della sua generazione. Già nel 1994 sapeva raccontarci “l’arte dell’accecamento” dei sensi, il “mondo panico” viriliano con quel Safe premonitore delle nostre (di tutti) attuali sofferenze e condanne (della fine del mondo). Mentre Velvet Goldmine raschiava il fondo dell’immaginario glamour, con sguardo dolce/punk, “tra il dolore e il nulla”…e, cinque anni fa, ritornava con Lontano dal Paradiso all’epoca “lynchiana”, quegli anni Cinquanta in cui tutto ha avuto inizio (compresa la nostra fine verso gli esseri digitali compressi e zippati dalla vita). I’m Not There sta alla biografia romanzata come il 2001 kubrickiano alla Fantascienza e lo Scanners cronenberghiano all’Horror. Letteralmente trasfigura il genere in altro da sé, e così de-generato riesce ad “ottenere una qualche forma di verità mettendo in scena la vita di Dylan attraverso uan sorta di fiction” (parole del regista). Una fiction folle e perversa, che usa frammenti di documenti reali con altri totalmente reinventati, che gioca con l’impatto del cinema sixties sull’immaginario collettivo di quegli anni (la scenetta con i “quattro di Liverpool” che scappano in un mondo alla “Richard Lester” in tal senso è esemplare) e, soprattutto, lavora sulle contraddizioni del personaggio, sulle sue diverse “fasi” della vita (come tutti noi del resto, no?), sulle tensioni emozionali che travalicano e slittano da personaggio a personaggio, come se qui raccontassimo non uno ma sei mondi, sei stati d’animo, sei luoghi dell’arte che si compromette con la vita ad ogni “cambio di passione”…  E alla fine, nel gioco dello “spiazzamento identitario”, il “vero” Dylan compare dopo due ore e dieci di cinema “espanso” che vola via nei nostri corpi (quelli che hanno voglia/desiderio di lasciarsi trasportare dallo sguardo dell’angelo…): pochi secondi, poi un lento/rapido sfumare, come se la realtà (come l’amore?) fosse ormai soltanto un attimo…
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