VENEZIA 64 – In the Valley of Elah, di Paul Haggis (Concorso)

Superbo film sulla necessità di ritornare umili e saper chiedere aiuto, quello di Haggis vive di una sceneggiatura ai limite della perfezione e di un Tommy Lee Jones da brivido… Arriva la Lido un potenziale Leone d’Oro che scardina dall’interno il gioco sporco della guerra in Irac, curiosamente rappresentata in formidabile sintonia stilistica con il De Palma di Redacted. Due capolavori!
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Aiutateci.
Ci sono film con messaggi subliminali, altri con richiami incomprensibili, altri ancora con grida chiare ed estreme, esplicite, quasi strazianti. Redacted di Brian De Palma chiudeva su quella foto (vera?) del corpo morto di una giovane donna, con gli occhi aperti e la bocca spalancata, quasi/oltre l’urlo munchiano. In the Valley of Elah non urla con la gola, perché non può, non sa più farlo, ma urla con la simbologia, anche a costo di sprecare una sceneggiatura ai limiti della perfezione con un qualcosa di troppo esplicito.

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La bandiera capovolta.

Hank Deerfield (Tommy Lee Jones, “great actor”, come dicono i protagonisti di Searchers 2.0 di Alex Cox) deve sempre spiegare al più giovane alzabandiera della sua zona, come va issata la bandiera. Non “a testa in giù”, perché quello è il segnale convenzionale internazionale di aiuto, quasi di resa. E nel frattempo continua a cercare il secondogenito (il primo lo ha già perso in guerra), che come lui ha voluto fare il militare. E’ appena tornato dall’Iraq, ma non lo si trova più. Scomparso. E Hank inizia la sua ricerca, incrociandosi con quella di una poliziotta single con bambino e testarda (una Charlize Theron che lavora meravigliosamente in sottrazione sul suo glamour di star). Le indagini sono complicate, perché c’è sempre di mezzo l’esercito con i suoi “redacted”… ma l’improvvisato duo, che in realtà lavora in parallelo, riesce un po’ alla volta a far emergere la verità. Che non è “la verità”, non c’è nulla di così eclatante da rivelare, se non la mostruosizzazione dei ragazzi di ritorno dalla guerra, quando diventano irriconoscibili, folli, esaltati, violenti, incapaci di controllare i loro più bassi istinti. Quello che scoprirà Hank è il nonsense di una (tutte?) guerra, come se già quelle combattute da lui non fossero state abbastanza. E cerca di ritrovare suo figlio più che nei brandelli recuperati al bordo di una strada nel deserto, nei racconti dei commilitoni, negli sguardi perduti di questi ragazzi mai cresciuti, e nei flash dei video mpeg girati con il cellulare dal figlio David in Iraq. E se alla fine Haggis cede al simbolico di quella bandiera capovolta e logora, issata in alto nel cielo, è perché questo grido arrivi il più lontano possibile, ma anche il più vicino possibile…
La guerra in bassa risoluzione.
Strana questa convergenza stilistica sul racconto di guerra tra due cineasti così lontani visivamente come Brian De Palma e Paul Haggis. Come se la guerra di oggi, presente dappertutto in questa Mostra che appare un campo di battaglia dell’immaginario odierno, non potesse che essere rappresentata dagli strumenti del comunicare di oggi, internet, youtube e videocellulari. Video che sembrano nascondere chissà quali verità e in realtà mostrano solo l’orrore quotidiano, che gli ordini di ingaggio e una guerra mai vinta necessariamente impone ai soldati. Che non possono far altro che cercare di rubare le immagini per riportarle ai propri cari, troppo difficili da raccontare sono le storie in prima persona.
Haggis, Davide e Golia.
Paul Haggis è uno sceneggiatore pazzesco. Basta leggere i titoli dei film che ha scritto per rabbrividire di fronte a tanto talento (Million Dollar Baby, Flags of Our Fathers, Letters From Iwo Jima, Casino Royale), ma in realtà è sufficiente vedere mezzora di questo superbo film (da Leone d’Oro?) per capire la straordinaria ricchezza di questa sceneggiatura, dall’esposizione dei fatti, alla cura dei dettagli dei personaggi, all’amore verso i personaggi minori, come quello della moglie di Hank, interpretata da Susan Sarandon, che con poche battute riesce ad emergere in tutta la sua forza e disperazione. Qui c’è tutto il talento e la tecnica che manca ai fantomatici cineasti italiani, messi a far cinema da un sistema dilettantesco e borbonico, dove arroganti e presuntosi borghesucci raccontano a nessuno le loro storie inutili. Viva Tarantino che gli ha sparato contro…
Il titolo In the Valley od Elah, si riferisce a un luogo in Israele citato nella Bibbia (Samuele, capitolo 17) dove si svolse la battaglia tra Davide e Golia. Davide è il figlio scomparso di Hank e anche il nome del bambino di Emily Sanders, la poliziotta, cui Hank racconterà le origini del proprio nome. “Amo questo titolo”, ha spiegato Haggis, “perché contiene tanti dei temi affrontati dal film. Il Re Saul mandò il figlio David nella valle di Elha a combattere contro Golia, arnato solo di cinque pietre. Mi sono chiesto: Ma chi farebbe una cosa del genere? Chi spedirebbe un ragazzo a combattere contro un gigante? Il film parla della nostra responsabilità per aver mandato tanti giovani uomini e donne in guerra”.
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