Venezia 64. "Nessuna qualità agli eroi" di Paolo Franchi (Concorso)

eroiIl primo film italiano in concorso è una delusione cocente che ci fa star male. Dietro la pellicola di Franchi c’è, infatti, tutta la fatica di un cinema che non sa esistere se non nella costruzione pretenziosa di un dolore cerebrale, di un’autorialità che è già implosa ancor prima di diventare materia filmica

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eroiBruno è un uomo sposato che ha appena scoperto di non poter avere figli, Luca un ragazzo psicotico figlio di un direttore di banca che rivendica un grosso debito proprio nei confronti di Bruno. Fra i due nasce un improvviso rapporto amichevole e allo stesso tempo pericoloso e conflittuale, che si instaura contemporaneamente alla misteriosa sparizione del padre di Luca. Scomparsa che risolve i problemi finanziari di Bruno e ha tutta l’aria di essere stata causata dalla follia violenta del giovane figlio.
Più che gli ingredienti da film noir, ravvisabili nel soggetto di partenza, al regista e sceneggiatore Paolo Franchi (La spettatrice) interessano soprattutto la dimensione astratta, le atmosfere oniriche e violentemente spezzate della scissione psicologica. Purtroppo però Nessuna qualità agli eroi è un film davvero brutto –  tra i meno riusciti visti finora a Venezia 2007 – profondamente schiacciato dal peso delle sue ambizioni. Ed è un’opera che fa male, perché ci illumina in modo definitivo e terribilmente funereo sulla fasulla complessità spocchiosa e sul conseguente vuoto che anima il cinema italiano di molti autori emergenti, spesso ingiustamente osannati. Dietro il film di Franchi c’è, infatti, tutta la fatica di un cinema che non sa esistere se non nella costruzione pretenziosa di un dolore cerebrale, che è al massimo copia sporca, fasulla, imbarazzante dei nostri maestri del passato. In Nessuna qualità agli eroi fotogrammi e parole pesano come macigni, incapaci di comunicare una sola emozione pura, un solo sguardo sul mondo o sulla vita. Pellicola la cui unica necessità di esistere sembra nascere non da un impulso di raccontare o vedere, quanto da una concezione precostituita di autorialità che è già implosa ancor prima di diventare materia cinematograficamente plasmabile.

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