VENEZIA 65 – "Akires to kame" di Takeshi Kitano (Concorso)

Akires to kameQuella di Machisu, il protagonista, è un’odissea alla Van Gogh, in cui la caparbia ricerca del gesto artistico sconfina nell’ossessione egoistica di una solitudine invincibile. Kitano porta a compimento il suo suicidio e, pur non rinunciando al suo ghigno sadomaso, recupera il disorientamento emotivo di un cinema che sembra sempre sognare l’astrazione per tornare, miracolosamente, alla materia viva e pulsante delle cose

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Akires to kameFino a che punto si può arrivare? Qual è il limite tra l’espressione del genio e il suicidio deliberato? Cosa vuole Kitano da noi, o forse, ancor più, da se stesso? E cosa gli chiediamo noi? C’è chi ormai lo rinnega e lo respinge, bocciandolo senza alcuna possibilità d’appello. Non c’è più margine di recupero. Ma noi continuiamo imperterriti ad amarlo, a seguirlo con il cuore anche nelle sue derive estreme. E questo Akire to kame ci ricambia, ci riama dal primo all’ultimo fotogramma, pur nel suo nichilismo febbrile e nella sua dolce disperazione. Kitano porta a compimento la sua trilogia della “distruzione” e chiude davvero il cerchio, arrivando alle domande essenziali sulla sua esperienza di artista e regista. In Takeshis’ aveva fatto i conti con la popolarità del suo personaggio, in Kantoku banzai! aveva giocato con il cinema, il suo, quello dei suoi modelli, reali o presunti. In Achille e la tartaruga si spinge fino ai limiti dell’arte, a quei confini smarginati con il nulla e la maniera dell’idiozia da un lato e con la vita dall’altro. L’avventura di Machisu, figlio di un ricco industriale e collezionista d’arte, ossessionato dalla pittura sin da piccolo, snobbato dai compratori e ingannato dai mercanti, rifiutato infine dalla sua stessa famiglia, è un’odissea alla Van Gogh, in cui la caparbia ricerca del gesto artistico sconfina nell’ossessione egoistica di una solitudine invincibile. C’è tutto: il rapporto, sempre perdente, con l’economia, il vuoto cieco della pretenziosità artistica, la follia sperimentale della gioventù, la schizofrenia dello sguardo dell’altro, dell’esegeta chiuso nella presunzione della sua interpretazione sempre approssimativa, manchevole. Cose già dette, potrebbe obiettare qualcuno. Ma come? Questo è il punto. Perché Kitano, pur non rinunciando al suo ghigno sadomaso, recupera il disorientamento emotivo di un cinema che sembra sempre sognare l’astrazione per tornare alla materia viva e pulsante delle cose. Ritornano alla mente Hana-bi (anche qui i quadri sono tutti firmati da Kitano), L’estate di Kikujiro, Dolls. Ma Machisu è il personaggio che reca evidenti, più di ogni altro, i segni del volto offeso di Beat Takeshi. Il cinema diventa un continuo, ininterrotto esercizio di body painting. Perché il corpo è un veicolo (mobile, ovvio) di colore e bellezza, lo strumento espressivo da spingere sempre un passo in là, oltre il limite della sofferenza fisica. Ma è anche lo schermo (immobile, per forza) su cui si proietta l’emozione ineffabile, lo scrigno inespressivo di ogni ferita dell’anima. Kitano trattiene il respiro e sfida la morte per ritrovare l’autenticità del tratto. Ecco. Akires to kame sembra davvero I cancelli del cielo di Kitano, la sfida finale al limite del cinema, il seppuku artistico come atto volontario, perseguito sino allo stremo, come l’unica e definitiva espressione di una libertà personale indifferibile. Un rosario sgranato lentamente, con i suoi mille incredibili, inevitabili suicidi, con i suoi sudari e le sue sacre sindoni ad afferrare l’estrema verità di un volto. Ma Kitano lascia aperto uno spiraglio, il suo occhio destro inconfondibile, il suo tic ancora una volta pronto a re-inquadrare il mondo. L’arte può essere ridotta a una vecchia lattina, il film può essere un rifiuto gettato via e ignorato. Ma un uomo e una donna se ne vanno verso il sole, come in Tempi moderni. Verso un altro film, un’altra storia.

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