VENEZIA 65 – "Gli indios sono dei sopravvissuti, non sono dei desaparecidos" – Incontro con Marco Bechis

Marco Bechis si è presentato in concorso a Venezia con il suo La terra degli uomini rossi, in cui presta il suo cinema alla voce dimenticata della tribù dei guaranì, indios ormai costretti agli stenti e alla perdita dell'identità a causa di un'agricoltura sempre più intensiva ed invadente.

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Marco Bechis, in concorso con La terra degli uomini rossi, è stato protagonista di un'appassionata ed affollata conferenza stampa, in cui le ragioni della causa della tribù degli indios guaranì hanno toccato punti davvero commoventi. Il regista è statto accompagnato dal produttore brasiliano Caio Gullame e dal cast in gran parte indigeno del suo film, fatta eccezione per i divi nostrani Claudio Santamaria e Chiara Caselli. Il dibattito con i giornalisti si è interrotto davanti alla denuncia della protagonista Eliane Juca Da Silva, che ha elencato le grandi e dure battaglie per la sopravvivenza della sua gente, assediata dalla pressione dei fazenderos. Ancor di più, il film di Bechis è diventato uno strumento importante di conoscenza.

Lei ha fatto film sui desaparecidos, anche La terra degli uomini rossi è un film su questo tema?

Marco Bechis: No, per evitare che ci siano altri desaparecidos, mi sono chiesto come vivono i pochi superstiti al più grande genocidio della storia. Gli indios sono dei sopravvissuti, non sono dei desaparecidos.

Questo sembra essere un film di confine. I protagonisti non sono né indios né persone civilizzate. Era studiato in partenza di mettere il loro accampamento proprio al confine tra questi due mondi?

Non sono d'accordo. Non è vero che non sono né indigeni né bianchi. Perchè allora avrebbero il desiderio di tornare nelle loro terre, anche se ormai non ne è rimasto più nulla? Abbiamo l'abitudine di considerare gli indios come dei selvaggi che vivono con le piume, l'arco e le frecce, ma non capiamo che si mettono così per farsi fotografare da noi, mentre invece hanno una loro cultura e una loro identità.

Gli indios sono stati avvelenati, eppure il suo non è un finale pessimista. Il protagonista non si suicida, continua a lottare. E' una sua speranza?

Ho speranza che loro ci diano speranza. Gli indios sanno sicuramente meglio di noi come si sta al mondo, e non credo sia facile rinunciare alla loro presenza. Si ha sempre paura degli altri, e loro rappresentano l'altro: eppure non dobbiamo smettere di cercare il contatto con il loro insegnamento.

Per loro è importante vedere la loro storia al cinema? E' importante conoscerla?

Eliane Juca Da Silva: Questo film non ce lo aspettavamo. Bechis ha lavorato molto, ha fatto tante ricerche per capire come viviamo. Sono triste per come ci hanno ridotto: non abbiamo più l'acqua, non abbiamo più il fiume. Vogliamo solo l'opportunità di continuare a vivere e a crescere. Vorremmo essere come voi: già ci vestiamo come voi, mangiamo come voi, e abbiamo solo la speranza che il governo rispetti le nostre abitudini. Ora voi mi guardate in faccia e io guardo in faccia voi, e porto con me anche quelli che non ci sono. I fazenderos ci vedono come degli intrusi, e noi non abbiamo speranza. I nostri giovani cercano opportunità e futuro, ma sbattono contro un muro. Quello che vedete nel film è tutto vero, non c'è nessuna bugia. Gli stranieri, soprattutto gli americani, vengono spesso da noi ma non raccontano mai la nostra storia. Noi invece abbiamo solo bisogno di qualcuno che ci rappresenti e ci difenda.

Da dove è nata l'idea del film, e quali ricerche ha comportato? Poi, perchè proprio il Brasile? E a conoscenza della politica brasiliana sulla nuova regolamentazione del taglio del legname? Sembra essere l'inizio della fine…

Marco Bechis: Non seguo la politica brasiliana, faccio già molta fatica con quella italiana. Il film è nato dall'incontro con Survival, un'associazione che difende i diritti degli indigeni. Mi hanno indirizzato da un avvocato e io l'ho conosciuto in Brasile: è un uomo che ha vissuto ai margini della strada, e poi si è ripreso la terra, dopo tanti scontri con la polizia. Il film nasce da questo e non si scosta dalla realtà. Dovevamo però costruire una storia, per evitare di farne un documentario. Birdwatchers sta infatti al confine tra la finzione e il documentario, e gli attori recitano tutti un personaggio, anche se sono indigeni. Si battono per la conquista, e al centro di tutto c'è il possesso della terra. Sono scettico verso le politiche del governo, che difende sempre gli interessi degli agricoltori, anche se gli indios hanno un diritto di possesso sancito dalla Costituzione. E' stato calcolato che basterebbe il venti per cento delle terre acquisite illegalmente dai fazenderos per per mettere agli indios di essere autosufficienti.

Sembra molto importante l'uso di musiche barocche.

La musica originale è di Andrea Guerra, ma ho ripreso anche le musiche di Domenico Zipoli, un missionario e un compositore del '700 che le scrisse lì e le fece interpretare dai guaranì, ritenendoli migliori degli occidentali. Sono musiche scoperte solo tredici anni fa, e questa era anche un'opportunità per presentarle al pubblico.

Il film verrà distribuito in Sudamerica?

Caio Gullame: Verrà presentato al Festival di Rio de Janeiro, e sarà nei cinema a dicembre.

Il tema del suicidio è un tema nuovo nei film sugli indios, di solito si parla della loro migrazione in terreni inospitali…

Marco Bechis: Lucrezio diceva “se elenchi tutte le cause, prima o poi troverai quella giusta”. L'importante è quindi non dimenticarne nessuna. Gli indios soffrono la mancanza di terre, dell'identità sottratta, girovagano camminando per le strade e vengono trattati come i rom sono trattati qui da noi, e vengono continuamente sgridati dai loro vecchi perchè se cercano l'integrazione finiscono per tradire le loro origini. E' un fenomeno molto delicato, e loro non amano parlarne.

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