VENEZIA 65 – "La libertà dell'artista senza essere surrealista", incontro con Agnes Varda

Il suo film Les plages d’Agnès, una autobiografia per immagini, è stato ospitato nella sezione del Concorso della Mostra. I suoi ricordi appartengono in parte alla storia del cinema e attraverso quelle immagini ha offerto al pubblico della Mostra anche questa parte della sua vita.

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Ci sono persone che preferiscono scrivere un libro, lei preferisce parlare con le immagini e con questo film ci ha raccontato due belle storie d’amore quella per il cinema e quella con Jacques Demy…

Sono una cineasta non vedo perché non dovrei utilizzare il cinema. Attraverso questo film non ho cercato soltanto di tracciare un mio autoritratto, ma ho voluto che il film fosse anche cronaca. Con il filo del mio viaggio nella vita ho voluto affrontare temi che hanno caratterizzato una parte del ventesimo secolo.

 

Come ha fatto a raccontare alcuni momenti intimi e profondi e soprattutto a trasformare questo vissuto in emozioni sullo schermo?

Credo che tutto stia nel metodo. Ho ricostruito ad esempio anche il cortile di casa, non è stata una cosa facile così come non è stato facile ottenere i permessi per girare sulla Senna. Poi, invece, altre cose sono venute più facilmente. Ad Avignone, quando mostro le fotografie dei miei amici mi sono resa conto che erano foto di persone che oggi non ci sono più. Ho poi tentato di permettere alle cose di accadere. Ad esempio non ho ordinato al magnifico vento del nord di soffiare durante la sequenza che vedete all’inizio del film. Ma senza quel vento il mio foulard non avrebbe fatto le sue evoluzioni. Infine, ho sempre cercato di vivere con buon umore il mio metodo del mostrare e nascondere. Quando si è anziani si ha necessità di sentirsi protetti e attraverso la mia famiglia lo sono, attraverso questo film i miei figli e miei nipoti hanno capito qualcosa in più di me e hanno scoperto anche alcune cose sulla mia vita. Avevo il desiderio di mostrare il mio viaggio, il mio percorso è certamente un discorso da anziana, ma non da morente.

 

Come è nata la decisione di fare ora un film sulla sua vita e non dieci anni fa o ancora più avanti?

Perché non so se sarò in grado di farlo tra dieci anni. Ho considerato i miei ricordi come una banca dati, ciccandoci sopra e li ho utilizzati quando ne avevo bisogno. Ho lavorato come un uccellino che prende quello che gli serve e mi sono messa nel mio piccolo nido. Avevo anche paura di essere immodesta. Ho raccontato i tunnel che ho dovuto attraversare nella vita, ma con il mio film ho voluto rendere omaggio alle persone defunte, ma non soltanto, come a Resnais e a tutti gli altri scrittori che mi hanno insegnato la leggerezza anche se ora lavoro con i giovani.

 

Come è stato essere una cineasta negli anni ’60 in Francia e poi in California?

Non ho mai avuto difficoltà a fare cinema. Non ho mai pensato che questo fosse un mestiere per uomini. Ero la sola donna nell’ambiente della nouvelle vague a fare cinema e ho spinto molte donne a cimentarsi nel cinema. Comunque devo dire che non ho mai sentito alcuna discriminazione nei miei confronti. Per quanto riguarda l’America, per me l’America è Los Angeles, sono stata in altre città, ma quella soprattutto per me rappresenta l’America è su quella città che si concentra il mio interesse.

 

Il tema della spiaggia come insieme di luoghi è stato lo spunto per realizzare questo film?

Amo le spiagge, mi piacciono credo che siano i luoghi più completi, perfetti nella loro orizzontalità. Si dice e si pensa spesso che la vita sia un’ascesa, ma se questo è vero io credo che l’ascesa debba avvenire seguendo l’orizzontalità e sia collegata a questo concetto. Ho voluto poi ricordare le spiagge della mia vita quelle belghe della mia infanzia, poi Sète e poi Nourmantier la spiaggia di Jacques Demy. A Parigi non ci sono spiagge, ma le ho ricreate. È stato un film che ho fortemente voluto e non è stato semplice e soprattutto il montaggio è stato molto complicato. Potrei definire questo film come la libertà dell’artista senza essere surrealista.

 

In questo film traspare la sua concezione per i rapporti d’amicizia e anche qualcosa di più profondo per i luoghi e poi il tema dell’indipendenza quella necessità di fare da se…

Mi piace che il film sia realizzato “a mano” e che sia un’esperienza d’equipe e quanto all’amicizia parlerei piuttosto di empatia e questo accade ad esempio quando si fanno le fotografie, i ritratti delle persone fanno uscire la bellezza del viso. Fare un film o una fotografia è un atto di condivisione e credo che si possa condividere con tutti anche con quelli che rovistano nell’immondizia. Non ho mai frequentato il potere o le persone ricche, sono sempre stata vicina. È stato difficile, per esempio trovare delle foto mie con Jacques, non eravamo dei vip e nessuno ci conosceva e quanto al nostro rapporto è durato 32 anni e come accade ci sono stati alti e bassi.

 

Abbiamo visto la sua vita e soprattutto i suoi ricordi, Francia e Italia hanno fatto delle scelte politiche, come vive in questa società?

Ho partecipato al movimento femminista che oggi pare non essere più di moda e ci ho dedicato anche un capitolo nel film. Oggi il problema del femminismo è che ha spostato i suoi obiettivi, esiste ad esempio il problema del controllo delle nascite e questa è una questione di cui si deve occupare il mondo del femminismo che quindi non ha esaurito il proprio compito. In molti mi chiedono qual è il mio rapporto con l’oggi e se sono ancora femminista. Credo che la lotta è lungi dall’essere conclusa e la sostengo. Per quanto riguarda la politica sono una donna di sinistra perché credo che le idee che appartengono alla sinistra si possano applicare, ma non voglio entrare nei dettagli della politica, né dei personaggi che la rappresentano.

 

Lei fa parte del periodo dei Cahier, oggi la critica sembra volersi occupare della salute dei figli delle star, secondo lei come è possibile dare voce ad una critica libera?

Se interessa a qualcuno vi posso dire che i miei figli e miei nipoti stanno benissimo e questo è il gossip maggiore che posso riferire. Credo che esistano diversi tipi di critica e che il compito principale di un critico sia quello di capire la scrittura di ogni cineasta. Per quanto mi riguarda non posso lamentarmi. Dal 1955 in poi ci sono state critiche buone ai film e in molti hanno voluto parlarne cercando appunto di capire la mia scrittura. Sono stata coraggiosa e avventurosa con i miei film e ho sempre voluto che si sentisse che dietro c’era un autore imperfetto. Avevo i miei entusiasmi che mi hanno trascinato e deluso e per raccontare questo dovevo trovare la forma giusta delle idee per un cineasta.

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