VENEZIA 65 – "Melancholia", di Lav Diaz (Orizzonti)
Un monumentale manuale di resistenza. È il tempo in continuità, la durata in estensione “reale”, che accomuna l’odissea di Renato (morto nel 1997 combattendo il regime filippino), che chiude il film, con l’odissea iniziale di Julian e degli altri, messa in piedi precisamente per esorcizzare la dolorosa sconfitta di Renato. E i prossimi a sbattere contro l’ostacolo che non si può superare, il tempo, siamo noi spettatori
La “morte al lavoro” che è il cinema riaffiora in un mondo ridotto al reality di se stesso senza poterlo essere fino in fondo, senza cioè che davvero si possa scegliere le proprie maschere come ce ne illude il reality. Non conta, non basta diventare un’altra persona per rimuovere il dolore di chi è morto lottando: non solo la scissione con la nostra maschera inevitabilmente si riapre sanguinando, ma noi stessi diventiamo direttamente chi è morto lottando, identifichiamo in pieno la nostra esperienza (e ogni esperienza è innanzitutto esperienza del tempo, qui restituitoci senza risparmiarci nulla della sua impietosa continuità) con la loro attesa della fine, con l’attesa della fine di Renato e i suoi compagni nella foresta. È il tempo in continuità, la durata in estensione “reale”, che accomuna l’odissea di Renato e dei suoi, che chiude il film, con l’odissea iniziale di Julian e degli altri, messa in piedi precisamente per esorcizzare la dolorosa sconfitta di Renato. E i prossimi a sbattere contro l’ostacolo che non si può superare, il tempo, siamo noi spettatori. L’utopia non può che morire, ma proprio perché non finisce mai di morire risorge sempre come speranza. Il massimo della disperazione e dell’ineluttabilità coincide con una paradossale ma incrollabile apertura: è quello che ci hanno insegnato Freud, Benjamin… E lo si ripete chiaro e tondo in Melancholia: “è grazie alla disperazione che abbiamo i libri, la musica, il cinema…”. L’unica vera dimensione politica: essere contemporanei della fine del mondo. Abitare il tempo vivendone sulla pelle la scissione, attimo per attimo, morirne sapendo che qualcun altro lo ha fatto e farà lo stesso al nostro posto.
Un unico set cosmico (ma anche bruciantemente circoscritto storicamente) che abbraccia spazi e tempi disparati attraverso l’immancabile, comune deriva delle identità (non a caso si finisce con Julian che giura di non essere Julian). E infatti la speranza è questione di identificazione: Alberta, che dopo aver tentato inutilmente di curare il dolore immedesimandosi in una prostituta, rivolge la propria identificazione alla sedicenne Hannah, “vera” prostituta rimasta orfana perché i genitori le sono morti nello stesso tentativo di resistenza che costò la vita a Renato. Alberta sperimenta la compassione, l’identificazione non verso qualcos’altro ma verso “un’altra se stessa”. L’agape insomma – che anche noi spettatori sperimentiamo (prolungando la deriva delle identità), grazie al tempo, verso coloro che come noi il tempo schiaccia istante dopo istante.