VENEZIA 65 – "Stella" di Sylvie Verheyde (Giornate degli Autori)
Undici anni, stivali, un pallone da calcio, ignoranza selvaggia e straordinaria purezza intessuta di umorismo da adulti, periferia parigina dei '70, sconcezze con la protezione di Marlene Dietrich per varcare il mondo dei bambini puliti: queste sono le armi di Stella, vergine non suicida decisa a sopravvivere a ogni costo, mascotte di un caffè dove la musica scorre con il sangue, nel terzo bellissimo lungometraggio di Sylvie Verheyde. GALLERIA FOTOGRAFICA
Si apre con uno spettacolo di danza innocente e malizioso che è il sogno di una vergine non suicida, ma determinata a sopravvivere, il terzo film, in parte autobiografico, di Sylvie Verheyde (due lungometraggi Un frère e Princesses, seguiti da alcuni film per la tv, un talento sicuro per descrivere la sintesi di crudeltà e tenerezza di un mondo pulito per ragazzini puliti – la piccola protagonista Stella li chiama “protetti”, già bollati dalla loro incapacità di difendersi da soli). Attraversato come Zazie, ma più adulta e seria, il metrò parigino, dalla periferia degli anni ‘70 dove vive nel turbolento caffè di famiglia, allegro quanto insanguinato da risse improvvise – Stella in stivali e zoccoli capaci di affrontare la metropoli notturna e cavernosa quanto il villaggio di zotici estivi, un pallone da calcio invece di una bambola, quasi una versione più dura, struggente e contemporanea di Claudine à l'école, dove nelle parole di Colette viveva una preadolescente capace di ingenuità e senso che un po’ le somiglia – in fila per varcare la soglia del primo giorno di scuola media è già immediatamente isolata, per uno scherzo del caso – Vlaminck, il cognome in
coda all’alfabeto – in un istituto prestigioso che maldigerisce la sua consapevolezza della vita, acquisita dallo spettacolo umano dei frequentatori del bar che è la sua casa e che la trattano da loro pari e non come un cagnolino intelligente e perspicace: “nessun cognome, solo nomi”, facce di emarginati e solitari, tra cui quella dolente di Guillaume Depardieu, biondo principe disfatto di cui innamorarsi un po’, quello tra tutti che indovinerà in Stella, con dolore, la donna che lo sta abbandonando, la bambina che non potrà più essere (“mi mancherai”). Ma non basta acquisire conoscenza della vita colpi di jukebox, giocatori di carte, ubriachi, due genitori affettuosi ma perduti nel loro delirio personale (basterebbe la scena tenerissima e struggente del tentativo silenzioso di Stella di proteggere il padre, interpretato dal cantante e attore Benjamin Biolay, un Casanova bello e un po’ intristito, dal tradimento e dal dolore, trasformandola per un attimo nella bambina di Tideland, per amare senza riserve questo film, che ha il merito aggiuntivo di non cadere nemmeno da lontano nelle trappole Sundance (Little Miss Sunshine) della famiglia un po’’ bizzarra, ma deliziosa); non basta per affrontare il mondo dei bambini fortunati: beatificata solo dalla visione della Regina Marlene Dietrich in una vecchia tv, ma decisa a non cullarsi in sogni infantili, Stella (la straordinaria esordiente Léora Barbara) deve misurarsi con la sua ignoranza selvaggia e la sua purezza intessuta di umorismo da adulti, sconcezze e istinto: se la sua migliore e unica amica finora era stata Geneviève, provinciale graziosa figlia di un padre con la follia negli occhi che non esita a infilarle il tubo del gas in bocca come metodo educativo, a scuola tra occhi neri e dolci strategie (“istintivamente mi sono seduta accanto alla Ragazza della Casa nella Prateria, forse se le siedo accanto a lei sarò sempre bella, serena e pulita come lei”) si imbatte nella rossa Gladys (Melissa Rodriguès), colta, golosa di dolci e amica generosa, nata in una casa di intellettuali argentini, che la inizierà col semplice contatto alla scoperta di altri mondi: Balzac,