VENEZIA 65 – "Vegas è un Inferno, e io amo vivere all'Inferno" – incontro con Amir Naderi
Il grande autore di Marathon e Sound Barrier presenta in concorso Vegas: based on a true story, nuovo potentissimo tassello di una filmografia americana personalissima e solenne: "ho scelto, per la parte del figlio, un ragazzo realmente nato e cresciuto a Vegas, perché credo fermamente nelle possibilità della nuova generazione statunitense, nonostante l'ombra dei genitori con cui devono fare i conti. Un po' come quel vaso dei fiori che resta lì stagliato in mezzo al giardino nella distruzione circostante…"
"Erano un paio d'anni che provavo a realizzare questo film, ma nessuno voleva darmi la casa a Vegas da usare come set…" – come sempre succede con un cineasta immenso com'è Amir Naderi, arriva in conferenza stampa per parlare di un film, e ti racconta un'esperienza. "Ringrazio i miei attori per aver sopportato di buon grado tutta la fatica e il lavoro in mezzo al deserto che sono stati necessari per raggiungere questo risultato."
Conosciamo il suo modus operandi sperimentale di girare un film. L'ha seguito anche stavolta?
No. Per questa storia mi sono reso conto che il mio metodo solito non avrebbe funzionato, e allora ho seguito una linea narrativa più forte, improvvisando soprattutto i dialoghi. Io e i miei tre attori abbiamo vissuto realmente per mesi in quella casa. Quello che loro non sapevano, è che la sera andavo a giocare ai Casino per procurarmi il denaro per finanziare il film. Se vincevo, il giorno dopo si sarebbe girato: in caso contrario, raccontavo loro che c'era cattivo tempo per mettersi a lavorare. Poi, frequentando i Casino ho stretto amicizia con un gruppo di giocatori abituali che mi hanno passato i soldi delle loro vincite per finire di fare il film. Ho promesso loro che se il film guadagnerà bene, gli restituirò tutto.
In che senso il film è based on a true story?
Vegas non è solo luci, soldi, neon e Casino – questo tipo di storie girano nell'aria, vengono raccontate come leggende urbane: il vero protagonista della vicenda credo sia al giorno d'oggi un barbone a Città del Messico…quello che mi interessava era utilizzare quella città come una metafora dell'America, tra le altre cose: per questo ho scelto, per la parte del figlio, un ragazzo realmente nato e cresciuto a Vegas – credo fermamente nelle possibilità della nuova generazione statunitense, nonostante l'ombra dei genitori con cui devono fare i conti. Un po' come quel vaso dei fiori che resta lì stagliato in mezzo al giardino nella distruzione circostante…
Come ha lavorato con gli attori in modo tale da convincerli a girare anche 30 ciak della stessa sequenza?
Ho detto loro: "o mi ammazzi, o ne giriamo un'altra. Non ci sono diverse possibilità."