VENEZIA 65 – "Z32", di Avi Mograbi (Orizzonti)

Dietro la facciata del pamphlet antimilitarista, il documentario dell'israeliano Avi Mograbi si pone il problema etico del cineasta, che non può cominciare il film fino a quando non si è tolto la sua maschera ed è entrato nella narrazione con le sue emozioni. Se i suoi protagonisti non lasciano mai mostrare il volto, e rivelare sentimenti che non possono essere nè provocati nè mostrati, Mograbi vi entra invece in prima persona, mettendoci la sua faccia, la sua vita.

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Nella prima inquadratura – il piano fisso di una stanza, un ragazzo e una ragazza sdraiati a fumare, con i loro volti fuori fuoco – i due protagonisti si interrogano su quello che stanno facendo: se riusciranno cioè a parlare e a comportarsi come se la telecamera non esistesse, se potranno impedirsi di affrontare i loro problemi senza l'ingombrante sensazione di essere sotto l'occhio di qualcuno che pretende che accada qualcosa. Successivamente, è lo stesso documentarista israeliano Avi Mograbi (qui anche come sceneggiatore e montatore) a presentarsi al pubblico con un cappuccio in testa: l'uomo cerca di dare vita al suo film, ma non ci riesce fino a quando non si libera della maschera soffocante, fino a che non crea lo scarto e la differenza con l'oggetto di quanto sta rappresentando. Il ragazzo non vuole farsi vedere – esigenza sempre rispettata da un occultamento digitale – mentre lui sente il bisogno necessario di non restare con gli occhi e la bocca chiusi. Z32 è la storia di un soldato ebreo condizionato dall'esercito a voler uccidere il nemico, e del suo appagato desiderio di affermarsi attraverso il sangue di qualche palestinese inerme. E' la ricerca di due tipi di perdono: quello della sua fidanzata pacifista, e soprattutto quello del cineasta, inizialmente incerto se mantenere l'illusione dell'oggettività o quella di apparire direttamente sulla scena con i propri sentimenti e le proprie idee. La necessità di essere eticamente chiari nella propria posizione rispetto al film, e alla lettura dello spettatore. Così, Avi Mograbi non se ne sta ipocritamente nell'ombra di chi organizza il materiale girato, nascondendo il fatto che è stato lui a provocarlo. Piuttosto, irrompe nella narrazione di Z32 con tutta la sua vita: il suo studio, il suo cane, sua moglie, suo figlio, persone che si muovono casualmente nella profondità di campo del suo appartamento, un'orchestra che accompagna i suoi intermezzi cantati, strumento di esplicita connotazione dell'immagine, con strofe che rimandano apertamente al coro e alla struttura della tragedia greca. Si eclissa soltanto quando in modo pudico lascia al suo soggetto e alla propria ragazza il compito di cercare una ritrovata umanità. Il calore di una comprensione sembra essere l'unico appiglio rimasto ad un giovane reso cinico dall'addestramento militare, dal trauma di un assassinio verso cui non riesce a provare rimorso. Avi Mograbi non sa dire se arriverà mai: Z32 finisce infatti – assai simbolicamente – con una telecamera che si spegne dopo l'ennesimo dialogo tra i due: il cineasta può ricostruire i fatti, ha la correttezza di chiarire il proprio punto di vista, è consapevole dei suoi limiti, e si rende lucidamente conto di non poterne mostrare (o imporre) i sentimenti.

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