VENEZIA 66 – "Prince of Tears", di Yonfan (Concorso)

Il regista di Hong Kong dà prova di una raffinatezza stilistica estrema, alla ricerca non tanto della perfezione del gesto che congeli la materia in una forma, quanto di quella armonia della bellezza, che possa porre rimedio ai suoni stridenti e discordanti del reale

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L’eleganza, in fondo, è misura. E con Prince of Tears, il regista hongkonghese Yonfan (Bishonen, Color Blossoums) dà prova di una raffinatezza stilistica estrema, alla ricerca non tanto della perfezione del gesto che congeli la materia in una forma, quanto di quella armonia della bellezza, che possa porre rimedio ai suoni stridenti e discordanti del reale. Si sente il passo lento e controllato dei classici, quel ritmo cadenzato, all’apparenza regolare, ma in realtà animato da mille sottili, variazioni e sfumature. Ed è la stessa ambientazione temporale a riportarci all’epoca di un cinema classico: quegli anni ’50 accesi e riscaldati da colori sempre troppo pieni e vivi. Sono gli anni in cui i nazionalisti di Taiwan combattono la loro guerra a distanza con i comunisti cinesi. Anni dominati da una capillare censura, da un regime di ‘terrore bianco’ che cerca, con metodi approssimativi ed esecuzioni sommarie, di evitare qualsiasi contatto tra l’isola e il continente e scongiurare il diffondersi delle idee maoiste. Anni, dunque, in cui le vicende dei singoli sono indissolubilmente legate alle sorti e agli umori della politica. Un pilota dell’aeronautica militare, la sua splendida moglie, il fratello Ding, funzionario della polizia politica, un’affascinante aristocratica, moglie di un importante generale. Sono questi i protagonisti di un melò che non esplode mai, trattenuto dal punto di vista ‘inconsapevole’ di tre bambine. Yonfan sa pennellare magnificamente le sfumature, come quel senso di esilio che accompagna la storia di Taiwan o la rassegnata solitudine delle sue donne, votate al sacrificio per amore. E nel tratto si riconoscono molti segni del cinema hongkonghese ‘d’autore’, da Stanley Kwan a certo Wong Kar-wai: una ricerca estetica maniacale, il gusto per certe atmosfere retrò… Ma la messa in scena evita ogni eccesso, ogni ridondanza barocca, come se le passioni fossero costrette a vibrare sotto la pelle di un codice di comportamenti di rigida eleganza. C’è qualche fiammata d’intensità, come nella scena in cui la madre accusa la piccola Li di aver causato l’arresto del padre. Ma si tratta di sparsi grumi di colore in un acquerello lieve. Le emozioni rimangono come sospese all’altezza dell’anima, affiorando sui volti e sui corpi per pochi istanti, costringendo la pellicola in brevi, impalpabili ralenti. Il nostro sguardo non è mai scosso, costretto a vibrare. Rimane a contemplare la bellezza rarefatta del quadro, alla ricerca dell’origine di quell’ispirazione estetica che sembra racchiudere il senso di tutto.     
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