VENEZIA 67 – Marco Muller talks!

Marco Muller a Venezia 67 foto sentieri selvaggiHa scelto alcune delle testate on line, il Direttore del Festival, per spiegare e raccontare senza peli sulla lingua, la sua Mostra del Cinema di Venezia. Dichiarando con chiarezza il suo pensiero e facendo nomi e cognomi ben precisi di quella sorta di “casta” della critica che cerca in tutti i modi di egemonizzare la “cultura cinematografica italiana”. Nomi e cognomi che risultano clamorosamente “scomparsi” nella versione dell’intervista pubblicata sul Corriere della Sera (già orfana della libertà di stampa, dopo l’addio di Marco Pratellesi?). Sentieri selvaggi non era presente, ma su cortese concessione dei nostri amici (bravi) di Cineclandestino.it, pubblichiamo la versione integrale dell’intervista, dove scoprirete che…

 

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Marco Muller a Venezia 67 foto di sentieri selvaggiMentre la sessantasettesima Mostra di Venezia si avvia verso la sua conclusione, ci viene data l’occasione (più unica che rara) di partecipare a una tavola rotonda con il direttore Marco Müller: insieme a noi gli invitati all’incontro sono tutti colleghi di altre testate online (BadTaste, MyMovies, Alphabet City, Loudvision, Arca Giovani, Venezia News, Nonsolocinema, più Gabriele Niola per il suo blog). Un modo, da parte del Direttore, di aprire un dibattito costruttivo sullo stato della Mostra e soprattutto su quello della critica istituzionale e dell’evoluzione che la scrittura cinematografica sta vivendo grazie all’universo di internet. Ma non solo: si parla di distribuzione, di cinema asiatico, delle nuove sperimentazioni visive. Un dialogo in grado di produrre suggestioni e letture tra le più disparate, e che vi proponiamo nella sua interezza. Un ringraziamento particolare va ovviamente a tutti i colleghi con cui abbiamo condiviso quest’esperienza e che hanno contribuito a rendere il dibattito così interessante.

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Qualche giorno prima dell’inizio del festival, ha affermato che il 2011 vorrebbe che fosse l’ultimo anno di festival per produrre film. Eppure c’è ancora molto da fare, il nuovo palazzo del cinema da costruire. Perché andarsene nel momento in cui la Mostra sta per avere un rilancio sostanziale?

Perché è la fine del mio secondo mandato, perché ho sempre finito i lavori che ho iniziato e ci sono film che avevo iniziato a produrre nel 2003: alcuni ho potuto portarli a compimento tra il 2004 e il 2005, gli altri sono rimasti dei libri, dei romanzi a fumetti di cui avevo comprato i diritti che sono pronti per essere trasformati in sceneggiatura ma sui quali bisogna iniziare a lavorare e bisogna soprattutto farli diventare film. Poi chissà, magari mentre si completano due film si apriranno scenari meravigliosi per la Mostra di Venezia, e sarò sempre disponibile a dare consigli. Ho sempre detto di non aver mai inventato nulla: semplicemente sono andato a consultare tra i miei predecessori quelli che hanno davvero contribuito a reinventare la Mostra. Per esempio l’altro direttore longevo della Mostra è stato Luigi Chiarini, che portò nel 1966 come film d’apertura Wild Angels di Roger Corman: una continuità non indifferente con Machete che ha aperto la nottata dell’edizione 2010. Se dico questo è per dirvi che chiunque arrivi in futuro consulterà tutto questo e anche ciò che è accaduto negli ultimi due mandati, perché credo che le indicazioni lanciate siano chiare.
Voglio dire che l’anno prossimo non cambieremo certo formula per quel che riguarda la sezione Orizzonti, ma se leggo su siti e blog vedo che l’interesse suscitato è quello che ci aspettavamo, mentre osservando la stampa quotidiana rimango sbalordito dal fatto che non ci si trovino neanche due righe. A questo punto dovremmo fare la Mostra solo nei momenti in cui i capi pagina sono addormentati per evitare che con le loro scelte uccidano la sezione. Volete un esempio? Credo che tutti voi abbiate segnalato la presenza alla Mostra del nuovo film di Sono Sion, e io oggi ho trovato finalmente un mezzo articoletto su un quotidiano. E stiamo parlando del nuovo Imamura. Come si fa a scegliere di ignorarlo?

La sezione Orizzonti si è dimostrata come quella dotata della maggiore libertà, in grado di spaziare fra le varie esigenze del cinema contemporaneo. Forse il prossimo anno la Biennale, in concomitanza con la biennale d’arte, potrebbe ragionare su una connessione tra lei e la sezione, perché l’intervento della videoarte e delle altre sperimentazioni è oramai così forte che potrebbe davvero segnalarsi per quella multidisciplinarietà di cui si sente sempre la mancanza.

 

Soprattutto occorrerebbe lavorare a creare prima della Mostra i presupposti perché Orizzonti non diventi la scelta coraggiosa di un drappello di persone coraggiose e appassionate che già sanno cosa sta succedendo nel continente della sperimentazione visiva contemporanea. Mi preme particolarmente riuscire a creare un ponte tra la Mostra e chi studia la materia: non perché abbia un interesse specifico verso chi ha già dimestichezza con il cinema e ha le idee chiare, ma perché sono dei passaparola straordinari. Se la Mostra è viva è soprattutto perché si pone come punto di partenza di molti discorsi che nascono qui ma per fortuna termineranno in altri luoghi e in altri tempi, andranno avanti. Poi per me è indispensabile che si creino i presupposti affinché le personalità più giovani possano far pressione sui grandi distributori per costringerli a prendere in considerazione opere altrimenti destinate a svanire.

In questi sette anni di sua direzione della Mostra c’è stato un forte ricambio di pubblico e di accrediti a Venezia, anche per l’avvento della nostra generazione. Come si è adattata la Mostra a questo nuovo tipo di giornalismo?

Se voi guardate anche solo alla griglia di programmazione di quest’anno vi rendete conto di come non potevamo che scommettere moltissimo sull’allargamento dei soggetti che contribuiscono a formare il discorso della Mostra, attraverso i vostri diversissimi modi di rappresentarne opere e autori. Non dimenticatevi tra l’altro una delle modifiche a cui siamo stati costretti a partire dal 2006: i più grossi gruppi di produzione e distribuzione d’esercizio, una grossa fetta dell’informazione, hanno detto “non si possono più buttare i film in pasto a tutti questi recensori giovanili che magari tributano un’accoglienza terribile ai film, quindi ci vuole la proiezione in sala Perla prima di quella al PalaGalileo”. Ci è stata imposta questa cosa! Dopo aver fatto parecchie settimane di discussione su questo siamo arrivati a una situazione che io reputo aberrante, per la quale l’anno scorso Paolo Mereghetti e Goffredo Fofi (non ho timore a fare i loro nomi, perché sono stati visti più volte) alle proiezioni per la stampa quotidiana fischiavano i film di Herzog. Allora perché quella parte della stampa e dei media che fa così tanta paura non può esprimere le proprie opinioni e ci dobbiamo ritrovare in situazioni come queste?
Ci sto pensando da almeno un anno ad annullare quella modifica perché questo permetterebbe tra l’altro di alloggiare definitivamente Orizzonti in sala Perla, com’è giusto e logico che sia, avendo le dimensioni giuste per far decollare la linea della sezione.

 

Tornando invece al discorso sulla distribuzione cui si era fatto cenno in precedenza, nel marasma culturale italiano che stiamo attraversando, senza dubbio uno dei problemi che continua a rimanere senza alcuna soluzione, è il fatto che i film dei festival rimangono spesso appannaggio del pubblico dei festival perché in Italia la distribuzione zoppica, soprattutto su determinate aree geografiche. Al di là del lavoro già fatto in che modo la Mostra può cercare di trovare uno spiraglio ulteriore per la distribuzione?

Sono due anni che discuto con le principali piattaforme di video on demand in Europa, come Festival Scope (che credo che sarebbe il partner più giusto) e Projector TV, e sono due anni che riceviamo delle proposte molto concrete. Con The Auteurs per esempio era stato fatto un discorso molto chiaro: Venezia, Cannes e Berlino, sei mesi dopo il festival si dovevano premurare di portare tutti i film che non erano stati in grado di trovare distribuzione in sala su questa piattaforma in modo da creare un circuito parallelo di distribuzione europea. Lì sono stati Cannes e Berlino a non volere.

Bè, Cult è già un inizio…

Cult va benissimo per il suo taglio di avanguardia di massa, ma al tempo stesso non ci permette di rappresentare la ricchezza di tutti i nostri programmi.

Pensa che ci sia una pressione eccessiva da parte dei media tradizionali verso Venezia che, secondo la Aspesi, non ha capolavori ma poi li si pretenderebbero come se dovessero nascere direttamente dalla Mostra, e ci sia un esame costante verso il cinema italiano, vittorioso solo se riesce a portare a casa un premio assegnato da una giuria di poche persone?

Non c’è solo questo. Ormai siamo arrivati a una situazione davvero incestuosa: non è possibile che la linea redazionale dell’Ansa Cinema contribuisca a orientarla una persona che prima faceva il Festival di Roma, adesso è tornata a fare le Giornate degli autori e da sempre vorrebbe fare il direttore della Mostra di Venezia. Ancora: sapete meglio di me quanti collaboratori dei quotidiani scrivono sulla rivista della direttrice del Festival di Roma. È chiaro che a questo punto si creano dei sistemi di lealtà anche rispetto alle produzioni e alle distribuzioni. In qualche modo è bello che esistano altri gruppi di pressione, come quelli derivati dai social network, anche se nascono in maniera magari non casuale ma dettata comunque dalle abitudini.

L’impressione è che comunque la critica “ufficiale” non sia più in grado di spingere realmente i film che sostiene…

I dati di una ricerca compiuta dalla LUISS si muovono proprio in questa direzione, dicendo di non pensare che i quotidiani riescano a portare al cinema chissà quanti spettatori.

A proposito della logistica, perché nei prossimi anni peggiorerà: un gruppo ha comprato notevoli lotti di terreno del Lido, e vi costruirà. Per non parlare del nuovo palazzo del cinema…

Il nuovo palazzo del cinema non dice tutto. È nella nascita della Mostra nel 1932 che si può rintracciare il peccato originale. Nasce qui, perché nel 1932 (fatta salva la lungimiranza del conte Giuseppe Volpi di Misurata) l’Esposizione Cinematografica doveva soprattutto rispondere a un’esigenza degli albergatori e dei ristoratori che avevano bisogno di prolungare l’alta stagione di almeno due settimane. Come allora, anche oggi la Mostra è costretta ad adattarsi alle esigenze di chi dovrebbe rilanciare il Lido. Magari tra cinque anni una sezione come Orizzonti non sarà più la benvenuta. Per questo voglio finire il mio secondo mandato e poi produrre quei film che sono rimasti in sospeso.

Per quale motivo al festival tra i film in concorso c’è sempre una grossa presenza di opere asiatiche?

Nel mondo abbiamo un miliardo e seicento milioni di cinesi, quasi un miliardo di indiani, dentro la Federazione Russa di asiatici ce n’è almeno un terzo e via dicendo. È il mondo, la risposta è quella. A me interessa poi molto il cinema asiatico perché è tra le poche esperienze contemporanee che continua a rovesciare il cinema, a metterlo sottosopra, capovolto. Ci devono sempre essere almeno un paio di cinema d’azione cosiddetti “asiatici” perché quando uno sa capovolgere il cinema con la sua testa e scalcia e lancia pugni capovolto magari succede qualcosa, vengono tolte delle incrostazioni. In qualche modo ti dà delle indicazioni precise: non si può ragionare sulla produzione in serie immaginandola come l’eterna replica di ciò che ha funzionato nella stagione precedente. La produzione in serie ha senso solo inserita in un contesto industriale all’interno del quale uno possa ancora ricavarsi degli spazi particolarissimi.

Per quanto riguarda la struttura del festival, quest’anno il fuori concorso, che era sempre servito come vetrina dei film mainstream, ha cambiato faccia. Cosa si nasconde dietro questa scelta?

Per fortuna siamo cresciuti anche noi. Molto spesso abbiamo avuto bisogno di quei film per catturare nuovi gruppi di spettatori, per contribuire a focalizzare sulla Mostra l’attenzione di alcuni media. Era fisiologico che il rapporto con alcuni dei grossi monopoli di produzione e distribuzione si trasformasse sciogliendo alcuni degli accordi della prima fase, proprio perché la Mostra non deve insistere sui film su cui tutti sanno già troppo prima ancora di vederli. Questi non sono infatti i più attesi, sono piuttosto l’oggetto di una campagna quasi militare di marketing dove noi non saremmo una punta d’organo nel lancio. Qualche volta ne abbiamo avuto bisogno perché così smetto di leggere sulla stampa quotidiana stupidaggini come “tappeto rosso povero di star”, “da due giorni il tappeto rosso piange”.
Lo stesso discorso vale per la cosiddetta “valanga di film italiani”. Quando prima facevo il discorso su certe agenzie giornalistiche, mi riferivo proprio a questo: ma vi rendete conto che questa balla è stata scritta come lancio di un’agenzia che con toni catastrofistici immaginava la Mostra stritolata dai titoli italiani? Naturalmente hanno mentito, perché se non spieghi che ci sono sia lungometraggi che cortometraggi davvero c’è l’impressione che ci sia solo il cinema italiano.

Il rapporto con determinati gruppi di critici riguarda la cattiva critica o la cattiva scrittura?

È addirittura peggio, perché è un rapporto con chi può condizionare le abitudini di visione di chi da casa legge e a questo punto avrà sempre meno voglia di avere di fronte un’offerta variegata. Perché è questo che succede: a ben guardare si parla di film italiani, statunitensi, qualche punta di cinema europeo, una volta c’è una sparata sul film asiatico, ma oramai abbiamo già fatto il giro del mondo…

Raffaele Meale

 

Per gentile concessione di  www.cineclandestino.it

 

 

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