VENEZIA 68 – "Amore Carne", di Pippo Delbono (Orizzonti)

amore carneUn telefono cellulare sostituisce "l’occhio malato" di Pippo Delbono, filmando un diario intimo e personale che non arretra dinanzi a nulla: Amore Carne è un cinema dolorosamente necessario, in cui il regista mette in gioco tutto sé stesso con un coraggio e una lucidità  che meritano il massimo rispetto possibile. Una danza bellissima e sofferta che si muove al ritmo della musica e delle parole, della voce e degli sguardi.

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amore carneIl cinema di Pippo Delbono continua ad essere tra i più colpevolmente ignorati, oscurati, esiliati: figura imponente nel fisico e nell’animo, Delbono non rinuncia a portare avanti una poetica personalissima che trova pochi termini di paragone nel panorama italiano attuale e che, conseguentemente, non riesce a trovare spazio in una distribuzione che non lo merita. Sperimentatore aperto alle innovazioni tecnologiche, nonché regista di sé stesso che non arretra dinanzi a nulla, con Amore Carne realizza per la seconda volta (dopo La paura) un film utilizzando semplicemente un telefono cellulare, una macchina da presa portatile e invisibile che si mette al posto della propria vista malata ("ho le cicatrici nell’occhio", racconta, "vedo come se fossi sott’acqua"). Più che un documentario, il diario intimo di un uomo che mette in gioco sé stesso con una lucidità e un coraggio che suscitano ammirazione e lacrime, il resoconto disperatamente vitale di una resistenza: resistenza alla malattia, alla morte, all’amore. All’esistenza stessa. Delbono racconta la scoperta della propria sieropositività, con la quale convive ormai da molti anni, con la ferma intenzione di non voler cambiare nulla del proprio passato; racconta il dolore per la perdita di un padre morto troppo presto, l’amore incondizionato per una madre che ha sempre raccontato le loro vite agli sconosciuti ("al postino, al macellaio") e che gli ha insegnato a sua volta la curiosità e l’apertura verso il mondo, verso l’altro. "Per sentirti meno solo, forse…”, perché raccontare significa intraprendere un viaggio doloroso e allucinante nelle strade e nelle città, ma soprattutto attraverso sé stessi. E Delbono racconta appunto sé stesso, riacquistando appieno il piacere e l’importanza della parola, dando voce ai versi di T.S. Eliot ("se veniste da queste parti… vi toccherebbe spogliarvi di quello per cui i morti non trovano parole da vivi") ,  e urlando e cantando i pensieri di Arthur Rimbaud , con un effetto a volte straniante eppure sempre, inevitabilmente, vivo, dal quale se ne esce con i brividi addosso e le ossa a pezzi. Perché la parola è di tutti, e il cellulare del regista si muove e cammina con lei, abbandonando (rifiutando?) in completa libertà qualsiasi tracciato possibile di sceneggiatura, sviando completamente dalla struttura che il film sembrava aver preso per poi riprendere i racconti dei suoi amici, dei suoi compagni di sventura, per catturare le vite degli altri: racconti che parlano di madri fuggite alle rappresaglie della Romania fascista, o anche più semplicemente di figli che prima di addormentarsi interrogano i padri sui segreti del Nulla prima del Big Bang. Amore Carne è una danza bellissima e dolorosa al ritmo della musica e delle parole, della voce e degli occhi. Un cinema che sfugge a qualsiasi accusa di voyeurismo perché ci ricorda che se non ci mettiamo in gioco, se non ridiamo e soffriamo e parliamo, allora non esistiamo. Un cinema dolorosamente necessario, le cui immagini sono libere, dirette, vive, e sembrano correre in parallelo con quell’oblio che ci attende tutti, alla fine del cammino. Sembrano quasi sfuggirgli, scappare via; o almeno provarci. Ma è un tentativo che va sempre fatto, nonostante tutto, perché “finchè qui danzerai, la morte aspetterà".

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