VENEZIA 68 – "Dark Horse", di Todd Solondz (Concorso)


Esibisce la sua tristezza l'opera del regista statunitense, ma ormai il suo giochino è smascherato. I suoi personaggi sono pedine di un labirinto mentale, quasi parodia da sit-com, un cinema dell'aldilà che non sa stare di qua, che vuole far sentire intelligenti, e la comicità, la risata è un senso di colpa. Ebbene, si è contenti di non farne parte. Vedi e dimentica.

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Perdona e dimentica. Anzi, vedi e dimentica. In Dark Horse sono negati quegli spiragli intra/visti proprio nel precedente Life During Wartime e qui il cinema di Todd Solondz si richiude totalmente su se stesso, nella sua esibita tristezza, in quel sentimento tragico che viene affrontato attraverso inquadrature fisse, in dialoghi che vorrebbero svelare il dolore dietro l'ironia, l'assurdo dietro il quotidiano. Ma ormai il giochino è smascherato. Certo la sua è una cifra stilistica riconoscibile, con una ben precisa identità. E Dark Horse la evidenzia ancora di più. Ma è proprio quella di un cinema respingente, che usa i suoi personaggi come pedine di un labirinto mentale estremamente circoscritto, dove il movimento è negato, dove la tracce di colore si manifestano sul look e negli interni. Se le deformazioni di Tim Burton conducono spesso dentro un affascinante universo gotico dark, quelle di Todd Solondz portano soltanto a un persistente grigiore. Richard (Justin Bartha) è un trentenne che vive a c asa con i genitori e lavora controvoglia col padre. La sua unica passione è quella di collezionare giocattoli. A un matrimonio conosce il suo doppio femminile, Miranda (Selma Blair) e con questo incontro forse crede di aver cambiato la sua vita. Quasi parodia da sit-com, Dark Horse si alimenta proprio sulla ripetizione, sul ritorno ricorrente dei luoghi, sulla moltiplicazione delle situazioni: il rientro a casa, le sue attività in ufficio, le scene nel negozio di giocattoli dove chiede di parlare col principale. Non si smuove nulla, neanche quando la ragazza gli dice che ha l'epatite B, neanche nelle figure mummificate di Christopher Walken e Mia Farrow. Forse un cinema dell'aldilà che non sa stare di qua, che prende vita solo per pochi secondi con i testi delle canzoni, dove un movimento di macchina come quello dell'incontro tra le due famiglie da l'idea di vedere il film da dentro una bara. Tranne nel suo unico film riuscito, Happiness, l'opera di Solondz chiude le finestre verso l'esterno, mostra i fantasmi mentali come proiezioni soggettive di quell'umorismo che vuol fare sentire tanto intelligenti, che è accessibile a una cerchia ristretta della quale fanno parte pochi eletti. Ebbene si è contenti di non farne parte, di essere ordinari, perché no, anche stupidi. Prendete la storia del protagonista e portatela nel cinema dei Farrelly o di Ben Stiller oppure fatelo interpretare ad Adam Sandler. Lì la risata, la comicità è un atto liberatorio, non un senso di colpa.

 

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    Un commento

    • Gent. mo Emiliani,ho letto la sua critica al film, e non riesco a capire se ciò che la spinge ad esprimersi sia incomprensione o malizia. Come può chiunque abbia visto questo film pensare che fosse meglio non averlo mai affrontato o quanto meno auspica a dimenticarlo?Sembra quasi che una misera esistenza di uno dei tanti non possa, perché troppo comune o poco eclatante, veicolare il benché minimo messaggio.Figlio legittimo di Solondz, anche questo film permette allo spettatore di immergersi in una vita altrui; con estrema lucidità e freddezza ci mostra la realtà più comune, quasi cercando di smuovere alla comprensione, o forse anche solo ad una pura consapevolezza.Ovviamente non si tratta di una commedia, questa è una tragedia e se qualcuno si aspettava di farsi due risate scacciapensieri ha sbagliato film, genere, autore.Personalmente un film da vedere, con pazienza e attenzione, come ogni buon film.