VENEZIA 68 – “Faust”, di Aleksandr Sokurov (Concorso)

Faust, Sokurov
Il maestro russo conclude la sua
tetralogia sulla natura del potere e dopo Hitler (Moloch), Lenin (Taurus) e Hirohito (Il sole) si affida alla rilettura del celebre mito di Goethe. Questo è un film che trasuda una strana vitalità, sospinto verso un gioco che non è solo la scommessa mefistofelica, né tanto meno l’estasi dell’attimo felice, ma ha quasi la portata fisica del gesto che libera i corpi, che scardina la rigidezza dell’esistere nella sua idealità – IL FILM VINCITORE DEL LEONE D'ORO DI VENEZIA 68

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Faust, SokurovSi chiude quasi come un arazzo, la tetralogia sulla natura del potere di Sokurov: non più un meraviglioso museo delle cere, in cui contemplare vivi i potenti nella loro cattività esistenziale, quasi dietro i fumi della formaldeide, in una tridimensionalità astratta e senile, terminata… Ma un quadro, piuttosto, un dipinto senza cornice che comprime la vita in una pittorica confusione di figure e sfondi che smarginano, affastellando i colori sbiaditi di un XIX Secolo che trasuda di umori e odori, di una fisicità molle e distratta. Il Faust di Sokurov, del resto, ci si offre da subito con le mani in un corpo aperto, in un cadavere di cui sviscera la fisicità mentre nega la presenza dell’anima, quasi a spazzare via il senso dell’imbalsamatore che ha manipolato le figure storiche (Hitler, Lenin, Hirohito) di Moloch, Taurus e Il sole. C’è un che di tragicamente solare in questo Faust che cerca cadaveri da dissezionare, oscuro e aperto nel suo moto perpetuo che si oppone all’immobilità, alla rigidezza delle figure della tetralogia: frenetico e affamato, come fosse un roditore, che annusa e manduca qua e là, una presenza che trascende se stesso mentre si disperde nella scena che attraversa. Nelle note di regia, Sokurov parla di un Faust fuori posto rispetto alle altre figure della tetralogia, “un eroe quasi da museo, un eroe letterario”, al quale tuttavia offre l’impatto quasi slapstick di una mobilità irrefrenabile, una maldestra destrezza che governa il suo corpo sino a fargli generare il male, una incapacità di governare se stesso, le sue azioni, di fronte a una scena che sembra agirlo al di là della propria volontà.

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In Faust Sokurov sembra invertire quella frontalità conteFaust, di Aleksandr Sokurovmplativa – vaga e vagheggiante – dei tre film precedenti della tetralogia, liberandola in una circolarità che lo apparenta al senso panico del movimento di cui sono intrise tante altre sua figure, dal medico de I giorni dell’eclisse ala vecchia Alexandra. Questo è un film che trasuda una strana vitalità, sospinto verso un gioco che non è solo la scommessa mefistofelica, né tanto meno l’estasi dell’attimo felice, ma ha quasi la portata fisica del gesto che libera i corpi, che scardina la rigidezza dell’esistere nella sua idealità. Faust è il personaggio che, proprio perché non appartiene alla Storia, scorre senza freni nella sua ideale ricerca spirituale: il suo è tutto un movimento che va dal fisico al metafisico, dal bisogno di corpi, denaro, cibo alla fuga dietro l’estasi assoluta di una visione (Margherita) che è la sola in grado di fermarlo, di renderlo definitivo.

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