VENEZIA 68 – "Habibi", di Susan Youssef (Giornate degli autori)

Una storia d’amore impossibile nell’attuale striscia di Gaza. La guerra e il dramma del conflitto israelo-palestinese presentissimo ma posto al di là dell’inquadratura, confinato in rumori di fondo o conseguenze tragiche sfiorate. E allora non si parla più di guerra, ma delle conseguenze quotidiane di una guerra che invade i rapporti personali guidandoli e condizionando i destini di chiunque

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Habibi

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Il cinema palestinese continua inevitabilmente a riflettere su se stesso e sul dramma che affligge un popolo. E la giovane regista e video-artista  Susan Youssef (nata e cresciuta a New York) con questo suo esordio nel lungometraggio sembra vagamente ripercorrere le orme di Elia Suleiman prefiggendosi programmaticamente di scovare tracce di poesia nelle macerie, sentimenti disciolti nella guerra di ogni giorno. Ma a differenza del grandissimo regista palestinese che fa del “suo” ironico sguardo sul mondo una sorta di occhio onnisciente e spietato, qui ci si sofferma solo su una "piccola storia" lasciando tutto il resto fuori campo. Habibi è la trasposizione odierna (nell’attuale striscia di Gaza) di  un poema classico del nono secolo, Majnun Layla: la storia d’amore impossibile e tragica tra una ragazza di una famiglia religiosa conservatrice e un giovane poeta innamorato che vuole a tutti i costi conquistarla. La guerra e il dramma del conflitto israelopalestinese è presentissimo ma posto al di là dell’inquadratura, confinato in rumori di fondo o conseguenze tragiche sfiorate. E allora non si parla più di guerra, ma delle conseguenze quotidiane di una guerra che invade i rapporti personali guidandoli e condizionando i destini di chiunque. Il giovane poeta Qays, infatti, scrive sui muri della sua città le frasi d’amore che partorisce: scrive con l’inchiostro della sua anima su un quaderno di cemento che divide lui dai bombardamenti. L’amore dall’odio. E il film procede con un suo strano ritmo interno, fatto di ovvietà narrative dettate dalla materia trattata intersecate però a mirabili idee di regia rinchiudendo i due ragazzi nella prigione di un’inquadratura che non li fa mai evadere o scappare. Scappare in Olanda come vorrebbero: verso la libertà, lontani dal conflitto e dalle rigide tradizioni familiari che per loro sono quasi la stessa cosa. Un apparato drammaturgico che risulta forse un po’ troppo programmatico e facilmente leggibile sul piano metaforico, ma  che è comunque capace di toccare delicate corde emozionali proprio nel riuscito equilibrio tra un racconto Privato che si immerge come una goccia nel mare di un dramma Pubblico. Proprio quello stesso mare che chiuderà il film sfondando finalmente le mura di una claustrofobia inquadratura.  

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