VENEZIA 68 – "Jultak Dongshi (Stateless things)", di Kim Kyung-Mook (Orizzonti)

Il giovane regista coreano Kim Kyung-Mook realizza un film mutante, in grado di transitare fra mondi narrativi contrapposti a forza di continui cambiamenti di stile e di registro. Operazione irritante e affascinante ad un tempo, Jultak Dongshi rivela una forte personalità d’autore, a cui manca forse ancora la consapevolezza necessaria per non incorrere nei limiti dell’autorialismo

 

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Jun e Sun-hee lavorano alla stessa stazione di servizio. Tutti e due vivono in Corea del Sud da stranieri: il primo vi entra clandestino dalla Corea del Nord, la seconda è originaria della Cina. È evidente che non si piacciono, eppure quando il loro capo molesta Sun-Hee, Jun la difende con la forza, e per i due giovani ha inizio una fuga liberatoria e impossibile. L’altra coppia sono Hyeon e Seonghun, un ragazzo e un uomo d’affari. La loro è una relazione appassionata, ma che non può reggere l’onda d’urto delle menzogne reciproche, della solitudine che Hyeon consuma nel lussuoso appartamento, in attese da ingannare comprando sesso su internet.

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L’accostamento fra i due universi narrativi è stridente, e si può ascrivere solo superficialmente a una lettura tematica: una duplice declinazione della solitudine, due mondi di “creature senza patria”, di esuli prigionieri. La tattica del regista Kim Kyung-Mook non è la duplicità e l’accostamento, ma la mutazione. Lo dimostra il transito di Jun all’interno del secondo segmento, in cui sbuca quasi come un nuovo personaggio. Dimenticata Sun-Hee (che scompare dal racconto), si offre per soldi a delle prestazioni sessuali umilianti con il giovane Hyeon finché, nella parte finale del film, in una specie di “terzo tempo” visionario, lui e il ragazzo si fondono in un’unica entità, un unico destino.

Un’opera mutante quindi, che parte dal registro realista del dramma sociale, con rapide riprese a mano che si fanno ancora più dinamiche nelle esplosioni di violenza, e termina in un finale oscuro, astratto, lynchiano. Nel frattempo concede alla prima coppia di protagonisti le pause di alcuni momenti meditativi e lirici, o il senso di libertà del primo Wong Kar-wai, giusto prima di precipitare nei climi torbidi dello psicodramma sessuale della seconda coppia. Qui a predominare sono i piani sequenza, a volte anche molto lunghi, in cui Kyung Mook chiede moltissimo ai suoi attori, che dimostra di saper controllare/manipolare con abilità.

È in effetti un’esibizione controllata di stilemi la sua, quasi un catalogo che suscita ammirazione per originalità e potenza visiva, e allo stesso tempo irrita per la sua insistita ricerca di “autorialità” (che si esprime anche in vezzi come il titolo del film che appare a dieci minuti dalla fine). Un atteggiamento che rischia di soffocare le ragioni e le emozioni dei protagonisti. Un’occhiata alla carta di identità del regista però ci rassicura: il fatto che sia nato nell'85 ci spinge a vedere in una luce più benevola il suo sfacciato esibizionismo, rassicurandoci sul fatto che il suo indubbio talento possa esprimersi in forme narrativamente più riuscite.

 

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