VENEZIA 68 – "Rabitto Horaa 3D (Tormented)", di Takashi Shimizu (Fuori Concorso)

Nel fertile dibattito inaugurato proprio da Sentieri Selvaggi sull’opportunità o meno di continuare a insistere sulla terza dimensione cinematografica confinata nei tanto discussi occhialetti, Shimizu dice la sua facendo intravedere un 3D necessario e non solo abbellente. Per Shimizu il 3D è il regno del malato che doma le proprie patologie in un cinema, dove la terza dimensione (in una scena visivamente molto potente) fonde virtualmente le poltrone della “nostra” sala con le quelle della “sua” sala creando un'effetto di vertigine "reale"

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Rabitto Horaa 3DVariazione su tema per Takashi Shimuzu. E il tema quale altro potrebbe essere se non l’incontro con i fantasmi yurei degli ormai “tradizionali” horror psicologici del nuovo cinema giapponese? Nasce così questo Rabitto Horaa 3D: come costola dell’ultimo Shock Labyrint di appena un anno fa, come frammento espanso di tutto il suo cinema precedente da Marebito in poi. E questa consapevolezza spettatoriale rappresenta il “primo” 3D del film: una terza dimensione che anticipa e allarga lo schermo; uno spettatore che ha ormai metabolizzato in toto un genere e i suoi stilemi base, entrando istantaneamente nella nuova storia senza il minimo preambolo. Forse perché, in fondo, non si è mai veramente usciti da quella precedente…e allora Daigo e Kiriko sono due fratelli con un triste passato, tormentati dai loro fantasmi interiori materializzati dall’ormai immancabile coniglione di peluche che scorta i personaggi in un tour guidato tra i labirinti e i tormenti della loro psiche. Nel frattempo cadono sotto la scure di Shimizu tutte le sicurezze giapponesi, famiglia in primis, che costruivano un mito oramai esploso nell’ossessione tutta nipponica per il “trauma della nascita”. E fin qui nulla di nuovo ovviamente. Ma ciò che colpisce di più nell’ultimo film del giovane e prolifico regista non sono certo le trovate di sceneggiatura, nè tanto meno le tematiche (sociali o meno) affrontate, bensì quella cristallina volontà di volere e potere comunicare solo ed esclusivamente attraverso le immagini. Restando programmaticamente nel regno del visivo e delle sue leggi e bypassando quasi totalmente concetti come narrazione o dialogo. Insomma Shimizu comunica letteralmente con il cinema, all’interno del quale Daigo seduto in sala scioglie il suo privato spaziotempo calamitando e poi inseguendo il coniglio dei due mondi: sorta di regista che trapassa le dimensioni e che ha il potere di far traboccare le immagini dallo schermo innescando il “secondo” 3D del film. Ecco che nel fertile dibattito inaugurato proprio da Sentieri Selvaggi sull’opportunità o meno di continuare a insistere su questo nuovo spazio cinematografico confinato nei tanto discussi occhialetti, Shimizu dice la sua facendo intravedere un 3D necessario e non solo abbellente. Il 3D in Rabitto Horaa è il regno esclusivo prima di Daigo e poi di Kiriko: è il regno del malato che doma le sue patologie in un cinema, dove la terza dimensione (in una scena visivamente molto potente) fonde virtualmente le poltrone della “nostra” sala con le poltrone della “loro” sala creando un effetto di vertigine "reale". Una sorta di dichiarazione di intenti, un tentativo di scovare nuove prospettive artistiche ad una tecnologia che se rimane fine a se stessa non può che crollare sui suoi piedi d’argilla.     

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