VENEZIA 68 – "Ruggine", di Daniele Gaglianone (Giornate degli Autori)


In Ruggine c’è come una distanza, una barriera che isola il film dentro una campana di vetro: è quella ricerca autoriale che non vorremmo più vedere nel giovane cinema italiano, è quella membrana che ci allontana dalle immagini quando invece vorremmo entrarvi con dirompenza. Un passo falso per Gaglianone dopo i risultati di Pietro: anche qui si cerca di mostrare ciò che rimane di un Paese senza più coordinate, ma stavolta il risultato si ferma alle apparenze di un prodotto troppo costruito e troppo lontano, mai spontaneo

--------------------------------------------------------------
CORSO COMUNICAZIONE DIGITALE PER IL CINEMA DALL'11 APRILE

--------------------------------------------------------------

Nel 1990 Philip Ridley realizzava quel capolavoro poco noto che è Riflessi sulla pelle, e forse ha ragione chi sostiene, già da tempi non sospetti, che nessun altro film sia riuscito a rappresentare il connubio tra Infanzia e Orrore con altrettanta efficacia e densità emotiva: oggi ci riprova Daniele Gaglianone con Ruggine, partendo dall’omonimo romanzo di Stefano Massaron per affrontare tematiche speculari al film di Ridley (che non a caso in seguito sarebbe divenuto scrittore per bambini) come la pedofilia, la provincia desolata e il racconto di formazione. E lo fa alternando passato e presente, giovinezza ed età adulta: i bambini di ieri, sopravvissuti all’orco Filippo Timi, una volta cresciuti vengono mostrati nell’istantanea di una giornata, come se un salto temporale li avesse portati direttamente ai giorni nostri cancellando tutta la vita trascorsa fino ad oggi; e così, vediamo Stefano Accorsi accudire il figlio piccolo mentre la moglie è al lavoro, Valerio Mastandrea trascinarsi stancamente in un bar tra un bicchiere e l’altro e l’insegnante Valeria Solarino arrivare alle strette con i colleghi durante un movimentato scrutinio di classe. Tutti e tre, nello stesso momento, rievocheranno pensieri e parole di quell’estate di tanti anni prima, quando erano solamente figli di immigrati meridionali e c’era un mostro cattivo che violentava e uccideva i loro compagni di giochi…  Com’è facile intuire da queste premesse le ambizioni di Gaglianone sono alte, ma non gli riesce quello che nel precedente Pietro era puro miracolo: mostrare cioè le macerie di un Paese allo sbando, che trova (anche) nelle ombre nel passato le ragioni delle metastasi del presente. E non ci riesce innanzitutto perché in Ruggine c’è come una distanza, una barriera che impedisce la profondità dello sguardo: se c’è una cosa che davvero non vogliamo più dal cinema italiano di oggi (da un certo, giovane cinema italiano), è quella malsana idea di autorialità che allontana il film da noi e lo rinchiude in una campana di vetro, impedendoci di vederlo e di toccarlo con mano; c’è  troppo, in Ruggine. Troppi fuori fuoco, troppa macchina a spalla, troppa musica là dove non ci vorrebbe. Troppa maniera nell’inseguire l’immagine perfetta. Tutto questo rende Ruggine un film finto, falso, troppo costruito e mai spontaneo: come il parabrezza dell’automobile di Timi, sempre oscurato e filtrato dall’acqua della pioggia o dell’autolavaggio, si vorrebbe abbattere questo vetro sporco che ci separa dal film per vederlo dal di dentro, anziché da fuori. Ma è un desiderio che Gaglianone ci nega sempre. Si conferma regista attento ai luoghi e capace di uno sguardo architettonico che non rientra affatto nei canoni estetici del Bel Paese, ma stavolta è come se si fosse fermato alle apparenze e alla forma, seminando il sospetto che, forse, ci sia più l’impronta del produttore Domenico Procacci che altro: poco coraggioso nel chiudere i conti con la memoria e il passato, scontato e superficiale nel raccontare la fanciullezza perduta e la banalità del male (cristallino in questo senso il breve monologo di Timi su Hitler). Si apprezza la volontà di ricercare un cinema meno accomodante, meno rassicurante, meno slegato dalla Storia comune; purtroppo però è una ricerca che rimane tale solamente sulla carta poiché, come sempre accade quando manca il coraggio di andare fino in fondo, alla fine ci si appoggia sempre e comunque a quella filosofia di scrittura secondo la quale bisogna accontentare tutti indistintamente: chiudere il cerchio trasformando i personaggi in pedine da manovrare a proprio piacimento (come dimostra il finale nella metro). Senza respiro, senza vita. Senza vero cinema.

--------------------------------------------------------------
#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

--------------------------------------------------------------
--------------------------------------------------------------
CORSO ONLINE SCRIVERE E PRESENTARE UN DOCUMENTARIO, DAL 22 APRILE

--------------------------------------------------------------

    ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER DI SENTIERI SELVAGGI

    Le news, le recensioni, i corsi di cinema, la riviste, i libri, gli eventi e tutte le nostre iniziative


    Array