VENEZIA 68 – “Scossa”, di Carlo Lizzani, Ugo Gregoretti, Francesco Maselli e Nino Russo (Fuori Concorso)

L'intento dichiarato di Scossa é quello di utilizzare la memoria collettiva e i resoconti dell'epoca, per raccontare il cataclisma, per farlo diventare memoria condivisa di un Paese. Il film é uno strano oggetto che possiede molte caratteristiche per respingere l'occhio dello spettatore, ma conserva un certo fascino che appartiene ad un cinema d'altri tempi.

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A più di cento anni dal terremoto che distrusse Reggio Calabria e Messina, quattro registi, quattro nomi che messi insieme possono raccontare ciascuno un pezzo di storia del cinema italiano – qualcuno di loro lo ha già egregiamente fatto – si cimentano in un film collettivo che ha per tema quel terremoto del 28 dicembre 1908, la terribile scossa che, per la cronaca, provocò, tra le due città e relative province, circa centomila morti. Quattro episodi che lavorano su due direttrici fondamentali: i sentimenti e la critica politica. L'intento dichiarato è quello di utilizzare la memoria collettiva e i resoconti dell'epoca, per raccontare il cataclisma, per farlo diventare memoria condivisa di un Paese, spesso a corto di dispositivi mnemonici di portata popolare. In questo senso il cinema può assolvere una sua funzione, quella antica, ma ancora efficace. Nessuna intenzione di "monumentale" retorica, quindi, piuttosto una ricostruzione sul filo della cronaca. Nato sotto queste prospettive, con l'essenziale scrittura di Giorgio Arlorio, un altro "grande vecchio" del cinema italiano, Scossa é uno strano oggetto. Possiede, infatti, molte delle caratteristiche per respingere l'occhio dello spettatore, prima fra tutte una genetica antispettacolarità, ma conserva un certo fascino che appartiene a un cinema d'altri tempi e non è l'uso frequente del bianco e nero a dare questo sapore, quanto piuttosto, i temi che appartengono al cinema che gli autori hanno sempre realizzato. Da qui una certa immobilità che nuocerà alla diffusione del film. Quattro episodi si diceva: Speranza di Carlo Lizzani, Le rive della morte di Ugo Gregoretti, Sciacalli di Francesco Maselli e Sembra un secolo di Nino Russo, quattro storie, forse complementari, ma sostanzialmente non coerenti, prive di un legame forte. Se il terremoto tiene unito il film il resto lavora perchè ne risulti solo un cartello artistico sotto la comune traccia dei fatti. Ne deriva una incertezza realizzativa che si manifesta nel suo andamento alternato, peculiarità che si aggiunge, di diritto, a quegli aspetti che connotano negativamente Scossa. E' evidente, perché onestamente esibita, la povertà di mezzi con i quali il film è stato girato, il digitale povero ed essenziale ne costituisce la misura. Ma contrariamente a quanto si possa pensare queste limitazioni consentono, quando il progetto diventa convinto, una buona invenzione narrativa, si veda l'episodio di Gregoretti; si trasformano in scarsità inventiva in altri casi, denunciando l'esilità della messa in scena e la routinaria operazione di realizzazione. E' del tutto visibile, però, la sincera volontà di raccontare i sentimenti del disastro e, sotto un profilo politico, l'Italia di quegli anni in evidente stretto rapporto con quella dei giorni nostri, si veda l'intervento di Russo e ancora una volta quello di Gregoretti. L'episodio di Lizzani, in cui una donna muore sotto le macerie per non avere nessuno che l'aiuti a salvarsi, purtroppo,

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ad esclusione dell'impegno attoriale di Lucia Sardo, resta sulla superficie come un racconto prevedibile che potrebbe adattarsi a qualsiasi sciagura del genere e che, al di là di una caratterizzazione affidata al dialetto, non racconta quella specifica tragedia, nè pare essere un'utile riflessione sul tema. Se Lizzani lavora sui sentimenti materni e su quelli filiali, Gregoretti compie un'operazione consona alle sue corde di garbato, ma sempre pungente polemista dello schermo. Recupera, nel suo Le rive della morte, un resoconto che un giornalista scrittore piemontese, Giovanni Cena, scrisse in quei giorni per una rivista socialista. La sua presenza in Calabria, nei giorni immediatamente successivi al terremoto, lo condusse a riflettere sullo stato dell’Italia in quegli anni solidarizzando con i locali per l’assoluta mancanza di aiuti anche a diversi giorni dal terremoto. Gregoretti pone al centro della scena il suo Cena, un ispirato e convincente Paolo Briguglia e, con una precisa idea del proprio lavoro e dello scopo che lo guida, conduce il gioco con buona mano e racconta, come in un programma televisivo dei suoi, quasi "sottotraccia", l'Italia di oggi, più che quella di ieri. Il finale ne è la dimostrazione.Scossa Francesco – Citto – Maselli che ringraziamo di essersi presentato alla proiezione, racconta, speditamente, di un errore "giudiziario". Ranieri e la Sandrelli partecipano, ma non riescono (forse non possono per ragioni di scrittura) a raccontare il dolore collettivo, i sentimenti di "quella" tragedia. Nino Russo firma Sembra un secolo. Una metafora dell'oggi che deriva dal quel disastro. Un elogio va fatto a Gianfranco Quero protagonista assoluto del film che incarna zio Turi, un eterno deluso o illuso di questo Paese, un'Italia che non si trasforma con il passare del tempo. L'episodio è il ritratto, un po' scontato, di un Paese immobile pronto a festeggiare questa sua immobilità. E' l'unico episodio girato sui luoghi. Ma va detto che non è vero quanto si afferma nella didascalia finale. Le baracche di Messina (e quelle di Reggio Calabria) non sono quelle del terremoto, ma frutto del successivo malgoverno che continua nei secoli senza scosse.

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