VENEZIA 68 – “The Invader” di Nicolas Provost (Orizzonti)


Importante videoartista della scena europea, il belga Nicolas Provost non è certo estraneo agli incroci tra arte e cinema. Più precisamente, il suo Invader non è davvero né l'una né l'altra cosa. Tuttavia questa terra di nessuno in cui si colloca non manca di fascino, anche se rimane più di un sospetto di programmaticità

 

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Importante videoartista della scena europea, il belga Nicolas Provost non è certo più un invader. È vero, è il suo primo lungometraggio di finzione, ma i suoi numerosi cortometraggi di videoarte hanno sempre lambito da vicino la soglia fatale del cinema, prima di questo inevitabile attraversamento. Ed è ben consapevole di quale sia uno dei punti di transito più diretti tra ciò che resta dell'arte e il cinema: L'origine du monde di Courbet, dipinto citato nella primissima inquadratura, insostituibile esempio dell'abisso spalancato dall'effetto di realtà una volta portato all'estremo.

Tutto il film che segue, in fondo, avrà a che vedere con l'attrazione impossibile tra l'arte e il cinema. È la stessa attrazione di Amadou, aitante immigrato di colore, per la ricca e raffinata Agnès (Stefania Rocca), donna in carriera addentro, in mezzo ad altri oscuri ma redditizi traffici, all'arte contemporanea, tra nuovi artisti cinesi, mostre da inaugurare e quant'altro. La loro infatuazione ricalca pari pari il rovello e l'intima ragione di tanta (tantissima) arte contemporanea: la coincidenza paradossale tra l'altro e il basso, tra il sublime e l'escrementizio, tra l'essenziale e il contingente (è la mutazione enunciata didascalicamente anche dal conferenziere marito di Agnès). Ma il loro amore è di brevissima durata: Agnès ben presto non vorrà più saperne, e tornerà a chiudersi nelle sue gallerie.

Dobbiamo inferirne un abbandono dell'arte per il cinema? No, perché la seconda traccia narrativa (la vendetta sanguinosa di Amadou contro quelli che lo sfruttavano nel cantiere in cui lavorava clandestinamente) è ugualmente irrisolta, dal momento che, a fronte dell'intatta intelligibilità degli eventi, praticamente nessuna inquadratura si qualifica come davvero narrativa. Il centro non è mai sull'azione: le azioni sono buttate là senza curarsi affatto dello sviluppo della continuità visiva, ma molto del “torreggiare” glorioso del protagonista, o dei luccichii metropolitani di Bruxelles. Tra l'uno e gli altri, poca interazione. L'azione, frontalmente, ristagna. In altre parole: il film scarta tanto l'ipotesi di essere un prodotto di arte contemporanea, quanto quella di essere un film narrativo. E si piazza in una terra di nessuno: la stessa in cui vivacchia, vegeta, sussiste Amadou, ritratto per la maggior parte del film mentre “consiste” (nulla più di questo) in un'anonima metropoli contemporanea che non gli appartiene.

Questa estraneità irriducibile (di Amadou e della collocazione stessa del film) è forse il lato migliore e più azzeccato di The Invader, il quale ha il pregio (su cui non si poteva peraltro dubitare) di esibire una sfavillante attenzione al lato immediatamente visuale: alle luci, al design, alle architetture. D'altro canto, il sospetto che tutto si riduca a questa piccola scelta programmatica rimane. Come è il caso, in effetti, di molti suoi colleghi che si sono confrontati con il grande schermo.

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