VENEZIA 68 – “Tinker, Tailor, Soldier, Spy”, di Tomas Alfredson (Concorso)
È un peccato che il regista svedese non si sia abbandonato del tutto alla sua intuizione di realizzare la più nitida spy story omosessuale che sia mai stata fatta. Al termine del suo film dopo tanta noia “di classe”, rimane il rimpianto per aver intravisto una chiave, gli indici di un melodramma in potenza che purtroppo rimangono sfumature dentro un involucro monodimensionale

La sensazione è che Alfredson nel maneggiare un testo letterario carico di eventi, personaggi, implicazioni politiche e sentimentali (nonché un cast che oltre ad Oldman, conta l’ottimo Mark Strong, Colin Firth e il veterano John Hurt) abbia finito con il propendere per un equilibrio imparziale, quasi immobile, non necessariamente freddo ma ingabbiato nelle convenzioni di un’idea di cinema ostinatamente adulta, piana, pericolosamente monotona. Tant’è che probabilmente è proprio nell’epilogo – in cui vediamo i protagonisti malinconicamente salutati dalle note musicali di La mer, con l’abbraccio a distanza tra Strong e Firth scandito da un colpo di fucile – che sembrerebbe celarsi l’anima del film, il suo dolore sentimentale, il suo sapore omosessuale che rende questi agenti segreti vestiti con sciarpa, pullover e impermeabili, dei superstiti dentro un mondo fatto di solitudini, inganni e ideali andati a male. Pennellate che lasciano la morbida traccia di un film che non c’è, ma che forse avremmo voluto vedere. È allora un peccato che il regista svedese non si sia abbandonato del tutto alla sua intuizione di realizzare la più limpida spy story gay che sia mai stata fatta. Perché al termine del suo film dopo tanta noia “di classe”, rimane il rimpianto per aver intravisto una chiave, gli indici di un melodramma in potenza decisamente più interessante dell'intreccio spionistico, elementi che purtroppo rimangono sfumature dentro un involucro monodimensionale.