VENEZIA 68 – ¡Vivan las Antipodas!, di Victor Kossakovsky (Fuori Concorso)

Una misteriosa connessione in quattro coppie di paesi. L’esito è esteticamente appagante, talvolta mozzafiato, ma lascia perplessi.

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Victor Kossakovsky apre il suo film, questa sera in anteprima mondiale nella sezione fuori concorso, con una citazione dalla bibbia di Lewis Carroll: vuole che siamo appunto alice in wonderland, capaci di non sottrarci a uno scarto di prospettiva quando ci troviamo di fronte al mondo capovolto (mettendosi letteralmente a testa in giù: probabilmente lo hanno fatto molti di noi sul divano di casa, e lo fanno alcuni ragazzini nei primi film di Shyamalan). Si indovinano in Kossakovsky alcuni temi cruciali, scelti per raccontare una comunità primordiale e un enigmatico legame tra genti e terre così diverse: la fatica umana della costruzione, la sua caparbietà, il movimento, il ciclo delle generazioni, il conflitto tra libertà e solitudine, necessità utilitaristica e prossimità affettiva con l’animale da parte dell’animale uomo. In qualche modo, però, l’autore non li sviluppa, affidando solo alle immagini il compito di tracciare delle mappe immaginarie. Nelle intenzioni, ¡Vivan las Antipodas! non è fiction né documentario. Lo spirito che lo guida non è puramente artistico come nel lavoro di Godfrey Reggio, né sperimentale come Samsara, il documentario di Ron Fricke che sarà presentato a breve a Toronto; l’esito è esteticamente appagante, talvolta mozzafiato, ma lascia perplessi.

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Se il regista russo cerca una misteriosa connessione in quattro coppie di paesi, diametralmente opposti sulla sfera del pianeta terra, a mancare alla sua opera, è in un certo senso una personalità ben definita: una indipendenza del film dalla straordinaria-ordinarietà della vita quotidiana dei suoi protagonisti, dall’intensità dei paesaggi di impossibile bellezza delle otto località remote che ammiriamo, sottolineate da musiche importanti. Il film funziona meglio quando all’accompagnamento orchestrale o colto, più convenzionale (le musiche sono del compositore Alexander Popov) si sostituiscono i canti di tradizione popolare o i suoni catturati dalla natura, in un gioco di rimandi tra un paese e l’altro, un esperimento sinestesico che coinvolge vista e udito: nel caos di Shangai, tra l’assedio di bici e motorini diretti al lavoro, con maiali scuoiati per passeggeri, scivolano le musiche argentine, risate e parole siberiane si insinuano in Patagonia. L’espediente del capovolgimento, che mostra lo scorrere del tempo per i paesi ai due lati opposti della terra (Argentina-Cina, Cile-Russia, Hawaii-Botswana, Spagna-Nuova Zelanda) inizialmente è di grande impatto e crea delle immagini mozzafiato: nello stesso riquadro convivono sole e luna, la lava incandescente che si addensa e diventa una dura crosta minerale alle Hawaii si trasforma nella pelle di un elefante in Botswana, o si passa dal sentiero di polvere dell’Argentina rurale alla strada a scorrimento veloce di Shangai, con una sorprendente scena di traffico ripresa “a testa in giù” , un circuito avveniristico con il cielo sotto le ruote che sembra fuggita dalle fantasie di metropoli futuribili nei cartoni Pixar.

Ma paradossalmente, i momenti migliori, gli attimi in cui i paesaggi smettono di essere splendidi quadri per diventare quasi universi paralleli, dimensioni coesistenti in più spazi, più tempi, sono quelli in cui il documentarista rientra di prepotenza e diventa cantastorie folk, affabulatore: gli incontri con le presenze umane: il gioco delle opposizioni riesce più con i sentimenti appena accennati dei protagonisti, che con la magnificenza di Gaia, anche solo a partire da un taglio di capelli sbagliato.

Con i fratelli argentini di Entre Ríos, in attesa del pedaggio da farsi pagare sul piccolo ponte che puliscono con le loro mani, un vecchio cane scalcinato, nessun mezzo di comunicazione, nemmeno la radio: quasi beckettiani, restano affacciati sulla porta della baracca offrendoci dei dialoghi a metà tra il buon senso forzoso e il codice umoristico condiviso tra due persone che si conoscono da molto tempo e trascorrono ogni ora della vita insieme in un luogo isolato (il taglio di capelli di una conoscente, le previsioni del tempo in base al canto delle rane, le donne paragonate a lavatrici “mi usano!” e a motoseghe “non si prestano”); il rapporto affettuoso e paritario che si indovina tra la madre, che vive sola sul lago, e la figlia adolescente, che le fa una visita sul lago Baikal: un luogo di bellezza ultraterrena che però deve essere un abisso di solitudine (“un’altra visita troppo breve”). Le loro risate cristalline risuonano agli antipodi, nell’aria metafisica di Capo Horn, in Patagonia, tra i cento gatti, i condor, le pecore e il cavallo bianco di un pastore cileno che vive in uno strepitoso nulla, un altro personaggio quasi fiabesco; l’uomo che vive ai piedi del vulcano Kilauea, in “un paradiso” di lava, che smarrisce il suo cane, la balena che esala l’ultimo respiro su una spiaggia della Nuova Zelanda, così mastodontica che non può essere seppellita tutta intera e va tagliata a pezzi. Quasi un gesto d’amore.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.7

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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