La cifra del cinema di Wei Te-Sheng sta in questo suo voler esser a ogni costo sempre sopra le righe, completamente assorbito in un menefreghismo kitsch, che, come un caterpillar incontenibile, macina tutto, psicologie, rapporti, emozioni, sentimenti. Un grave difetto, evidentemente. Ma paradossalmente, pur scoprendoci a sorridere di fronte alla infantile e dichiarata manipolazione digitale delle immagini, alla fine rimaniamo diabolicamente affascinati dall’assoluta e strafottente esagerazione di tutte queste scene madri che si susseguono senza sosta
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La storia è di quelle oscure ai più. Durante l’occupazione giapponese di Taiwan (il 1895 e il 1945) le tribù indigene dei Seediq, oppresse e sfruttate, decidono di mettere da parte le loro antiche rivalità e riunirsi sotto la guida del valoroso guerriero Mouna Rudo. Nell’inverno del ’30, durante una manifestazione sportiva nella città di Wushe, i Seediq massacrano tutti gli ufficiali giapponesi e le loro famiglie. E’ l’inizio di una rivolta condotta con folle coraggio, ma anche con impensabile lucidità strategica. All’imponente forza di fuoco dell’esercito giapponesi i Seediq contrappongono il loro rigoroso orgoglio spinto sino ai limiti del suicidio e una perfetta conoscenza delle impraticabili foreste del monte Chilai. Il risultato è scritto, ma la gloria non è affare (solo) di questo mondo.
Il genio folle di John Woo è evidente. L’intento, entusiasmante, è quello di fondare un cinema epico taiwanese, affidandone le sorti al regista più promettente della nuova generazione, Wei Te-Sheng, autore del fortunato (e discusso) Cape No.7. Ma il sogno di un racconto, in forme spettacolari e in toni alti, capace di abbracciare la storia e lo spirito di un Paese, sembra naufragare di fronte all’assenza di un narratore, un Omero (come sempre vedente) che sappia inglobare in un solo sguardo la sostanza e la forma, gli uomini e i giorni, le tragedie e le speranze di un popolo. Lontano dal trovare la chiave di uno stile unico, personale eppur nazionalpopolare,Wei Te-sheng rimane sospeso tra due sponde, le tentazioni del kolossal americano e di quello cinese. Al punto che Seediq Bale appare come un ibrido azzardato tra Salvate il soldato Ryan, Braveheart, L’ultimo dei mohicani e La battaglia dei tre regni. Se il film sembra spostato più verso il lato occidentale del mondo, aumentando la frenesia cinetica e il caos, a scapito della perfetta organizzazione degli spazi e dei movimenti, la compiuta e controllata geometria delle coreografie, tipiche delle scene di massa del cinema cinese, è talmente denso di esagerazioni estetizzanti, talmente allungato nei suoi interminabili ralenti, nel suo smaccato gusto per il simbolico, da non poter richiamare alla mente certi Oriente. Eppure, se ogni ralenti di John Woo parcellizza e radiografa il movimento, ne sottolinea la leggibilità e lo porta a vette espressive e drammatiche, qui ogni cosa non fa che tendere, artificiosamente, all’amplificazione dell’impatto emotivo. Ed è questa la cifra (unica) del film e del cinema di Wei Te-Sheng: questo suo voler esser a ogni costo sempre sopra le righe, completamente assorbito in un menefreghismo kitsch, che, come un caterpillar incontenibile, macina tutto, psicologie, rapporti, emozioni, sentimenti. Un grave difetto, evidentemente. Ma paradossalmente, pur scoprendoci a sorridere di fronte alla infantile e dichiarata manipolazione digitale delle immagini, alla fine rimaniamo diabolicamente affascinati dall’assoluta e strafottente esagerazione di tutte queste scene madri che si susseguono senza sosta. Il ragazzino coraggioso che si lancia nel vuoto pur di far fuori un altro nemico, le danze di battaglia con le bottiglia in mano, gli occhi di un giapponese morente che riflettono i fiori di fuoco delle bombe. Sino alla camminata finale di tutti i guerrieri in un arcobaleno colorato di pixel. Ecco qui: decisamente fottuti, ci avviamo anche noi verso l’aldilà degli eroi Seediq.
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