VENEZIA 69 – "Araf (Somewhere in Between)", di Yesim Ustaoglu (Orizzonti)

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Se da un lato Araf configura in maniera interessante ogni sua riflessione (dal persistere di una violenza tutta maschile alla resistenza di molti pregiudizi apparentemente superati) confrontandosi dialetticamente con il presente turco, lo stile rigoroso ed eccessivamente programmatico di Yesim Ustaoglu fa fatica a raggiungere quel somewhere in between. A differenza del simile approccio di Christian Mungiu (4 mesi, 3 settimane, 2 giorni si materializza come fantasma nel finale…)  il film non riesce a raggiungere quelle radici fisiche prima ancora che morali del pathos

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arafStrane assonanze, echi ricorrenti, rimbalzano di film in film in questo Venezia 69. Il diritto di scegliere il proprio percorso sentimentale che (in)contra tradizioni e “passati” in Fill The Void, la cieca pervasività globale dei media disegnata in Superstar, i pericoli insiti in un distorto capitalismo di Pieta, sembrano tutti dialogare a distanza con questo sguardo altro, Araf, che letteralmente significa “luogo di mezzo” o somewhere in between come recita il titolo internazionale. Film turco della prolifica regista Yesim Ustaoglu che continua il suo percorso di indagine sul vuoto esistenziale, la nuova incomunicabilità, la crisi…

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Storia di Zhera e Algun, due giovani commessi di una stazione di servizio che incontriamo in quella particolare età che segna fatalmente ogni futuro: l’adolescenza si trasforma in responsabilità, scelte, scontri, errori, crescita. La monotonia del tempo si impossessa della loro vita e del film, percorrendo una progressione asettica e silenziosa ch,e procedendo per accumulo di intimi accadimenti, disegni quelle atmosfere rarefatte così care al cinema turco contemporaneo. Ovviamente Nuri Bilge Ceylan su tutti. Movimenti ripetuti e slanci trattenuti si stemperano nella (solita) finestra televisiva che promette Affari D’Oro – il titolo del programma che Algun guarda ossessivamente, simile al nostro Affari Tuoi – e rende soli(tudine) anche nelle economie in crescita come la Turchia. Zhera e Algun sono destinati a stare insieme e a perpetrare questo stato di ipnosi collettiva, se non ci fosse l’intervento della classica variabile esterna, l'enigmatico camionista Mahur, che si insinua come dinamite nella vita della ragazza e la risveglia sessualmente. Il frutto della loro passione sarà una difficile gravidanza che imporrà di compiere delle scelte tra tradizione e libero arbitrio.

Un occhio sempre un po' troppo compiaciuto quello della Ustaoglu, che depotenzia il suo innegabile talento nella messa in scena o nella scansione dei ritmi narrativi ammantando di una cronica programmaticità ogni slancio registico. I bei primi piani insistiti su Zhera che guarda oltre la finestra e il paesaggio che la circonda riescono poche volte a scuotere emotivamente uno spettatore che la insegue pericolosamente in fatto di stasi. Pertanto, se da un lato si fa fatica a aderire completamente allo sguardo confuso di Zhera che cerca nuovi orizzonti nel suo costante avvicinamento a superfici riflettenti (si pensi invece alla straordinaria complessità di un cineasta come Martin Boulocq), dall’altro risulta non ben calibrato l’accostamento narrativo con i nuovi spazi internettiani distrutti da Angun che getta il computer dalla finestra. E sia chiaro: il film centra molte delle sue riflessioni di partenza (dal persistere di una violenza tutta maschile alla resistenza di molti pregiudizi apparentemente superati) confrontandosi in maniera dialetticamente interessante al presente turco. Il fatto è che Yesim Ustaoglu è una cineasta che crede fermamente nello “stile” rigoroso come arma adatta a raggiungere ogni "luogo di mezzo", ma a differenza del ben più incisivo Christian Mungiu (4 mesi, 3 settimane, 2 giorni si materializza come fantasma nel finale di questo film…) fa molta fatica a toccare  le radici fisiche prima ancora che morali del pathos.

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