VENEZIA 69 – “Bait 3D” di Kimble Rendall (Fuori Concorso)

Bait 3D

Bait 3D ci riporta all’attenzione il personaggio di Russell Mulcahy, qui nelle vesti di sceneggiatore e produttore e deus ex machina dell’operazione, che negli anni ‘80 era stato uno di questi talenti su cui tanti avrebbero scommesso una luminosissima carriera. Qui il progetto horror è troppo ambizioso e il film, molto debole nella scrittura, scivola facilmente in una visione 3D senza sorprese.

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Bait 3dSi apre nell’acqua e con gli squali, la 69° Edizione della Mostra di Venezia, quella che segna il ritorno al timone di Alberto Barbera dopo gli otto anni dell’era Muller. E se lo scorso anno la “provocazione” era quella di gettare in pasto ai cinefili e critici la comicità televisiva di un Ezio Greggio che per primo sperimentava il 3D (impresa folle e assolutamente insensata, eppure a suo modo interessante…), molto più garbatamente, in perfetto “stile Barbera”, l’apertura spettacolare del Festival viene data anche quest’anno ad un film in 3D, ma di genere horror, molto più appetibile per i palati “viziati” dei frequentatori di Festival.

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Bait 3D ci riporta all’attenzione il personaggio di Russell Mulcahy, qui nelle vesti di sceneggiatore e produttore e deus ex machina dell’operazione, che negli anni ‘80 era stato uno di questi talenti su cui tanti avrebbero scommesso una luminosissima carriera. Straordinario regista di Videoclip (fu lui a dirigere il primo videoclip mandato in oda da MTV nel 1981, Video Killer The Radio Star per the Buggles) divenne famoso per un bell’horror, Razorback e per il fantastico Highlander.

 

Coadiuvato dalla regia di Kimble Rendall (che si è “fatto le ossa” dirigendo le seconde unità di un paio di film della serie Matrix), e soprattutto dallo scenografo Nicholas Mc Callum (specialista in set acquatici come Sanctum), Mulcahy si propone un progetto ambizioso e, forse, esagerato: ambientare un horror basato sugli squali, all’interno di un supermercato dove si stava compiendo una rapina sanguinaria, sulla quale irrompe un terribile terremoto seguito da uno tsunami che allaga e inonda il tutto.

 

In questo scenario caotico e apocalittico seguiamo pertanto le avventure di una dozzina di sopravvissuti (il rapinatore, l’assassino, il poliziotto, la figlia del poliziotto, i due ragazzi protagonisti della scena che apre il film un anno prima…) che, intrappolati sopra degli scaffali nei locali allagati, devono provare a sopravvivere alla presenza minacciosa di uno squalo bianco piuttosto affamato. L’intreccio non lascia spazio per troppe sorprese (del resto gli elementi in campo sono già tanti!) e lo script cerca di dare spessore, tra un pasto e l’altro del pescecane, ai personaggi della storia. L’idea di immobilizzare il potenziale eroe maturo per dare spazio al giovane non è particolarmente nuova, ma rende dinamica l’azione, tra tuffi nelle acque e risailte su auto e scaffali per salvarsi dallo squalo bianco. Tra battute e situazioni fin troppo ripetute, che a tratti sfiorano un’aria da sit-com, il film scivola facilmente nella visione 3D, dove detriti e pesciolini ci vengono incontro in molte inquadrature, senza però riuscire a liberarsi di una costruzione piuttosto artefatta dei personaggi e delle loro, terribilmente prevedibili, relazioni.  

 

Resta da salvare tuttavia l’ambientazione, dove il lavoro di Mc Callum sulle scenografie dona alla pellicola (ma possiamo ancora usare questo termine per un film ormai fatto di 8.000 file per una memoria di 23 TB?) un potente effetto claustrofobico, dove l’acqua e i suoi abitanti regnano sovrani. Ma si può davvero sparare a uno squalo con un normale fucile in dotazione della polizia, sott’acqua? Forse la polizia australiana è più sorprendente del suo, attuale, cinema…..

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