VENEZIA 69 – "Bob Wilson's Life&Death of Marina Abramovic", di Giada Colagrande (Giornate degli autori)


Life and Death of Marina Abramovic non  punta ad assumere il ruolo di summa: per quanto magari non possieda una linea conduttrice definita, al di là di quella cronologica. Mira piuttosto a farsi dimostrazione tangibile di quanto sia possibile ricavare artisticamente dalla sofferenze subite (altro tema piuttosto caro alla performer), di quanto questa certezza possa quasi costituirsi valore universale, potenzialmente di facile condivisione. 

 

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E’ possibile portare sulla scena il riflesso di un’intera esistenza, ripercorrerne i momenti salienti, contribuendo ad arricchire il tutto grazie al little help of friends come Wiliam Defoe, Bob Wilson e il cantante Anthony Hegarty, magari fino a toccare la spettacolarizzazione dell’immagine della propria morte? Se l’idea balena all’improvviso nella mente di una delle più importanti performer sulla scena mondiale come Marina Abramovic, la risposta è indubbiamente sì.

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La trasposizione in forma di documentario di un progetto tanto intenso, multiforme e sofferto (come a tutti gli effetti risulta la maggior parte della produzione dell’artista serba) naturalmente corre il rischio di vedersi sfuggire dalle mani le redini del discorso, o magari di risultare scarsamente accattivante per chi non segua da vicino l’artista..

Ma la regia della Colagrande sembra essere in grado di mantenere con costanza un certo livello di coinvolgimento (dello spettatore, così come di Bob Wilson, dato che a quanto risulta, era necessario un cospicuo livello di ingegno per intervistarlo, come ci rivela la stessa regista) e soprattutto un’omogeneità piuttosto interessante con la cifra stilistica dell’Abramovic.

E risulta difficile non subire almeno un po’ il fascino  di quest’eclettica ensemble , la cui forza trainante è probabilmente proprio la volontà di mediare fra la totale assunzione della figura di Marina e il mantenimento delle proprie soggettività artistiche (chiaramente tutte di diverse provenienze), nonché, ovviamente, di individui.

E’ facile supporre che la completa trasposizione della vita di un uomo nella sua interezza, per quanto questa possa risultare strabiliante, all’interno di un’opera di qualsiasi tipo potrebbe risultare un processo di scarso interesse in sé, men che meno ricavare un documentario su questo tentativo. Life and Death of Marina Abramovic non  punta ad assumere il ruolo di summa: per quanto magari non possieda una linea conduttrice definita, al di là di quella cronologica. Mira piuttosto a farsi dimostrazione tangibile di quanto sia possibile ricavare artisticamente dalla sofferenze subite (altro tema piuttosto caro alla performer), di quanto questa certezza possa quasi costituirsi valore universale, potenzialmente di facile condivisione.

Come risponde ironicamente William Defoe all’Abramovic, nel momento in cui lei gli domanda se si fosse sentito riconosciuto, pienamente rappresentato dal progetto, al termine dello spazio dedicato alle domande dopo la proiezione in sala, Yes, i do. Now i can tell, i’m Marina Abramovic.

 

 

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