VENEZIA 69 – "Menatek Ha-Maim (The Cutoff Man)", di Idan Hubel (Orizzonti)


Idan Hubel racconta una società senza futuro filtrandola attraverso l’ottica del mondo del lavoro; il suo film è di quelli che meritano rispetto proprio in virtù di una sincerità di intenti oggettivamente encomiabile, ma tutto soffre di uno sguardo banale e mai incisivo sull’universo che viene messo in scena

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Quando è un ufficio di collocamento a decidere il destino di un lavoratore, la vita forse è uguale da tutte le parti, in qualsiasi città. Anche se ci si trova nella periferia più desolata di Gerusalemme, e il mestiere scelto da terzi per noi non è dei più gratificanti, almeno agli occhi degli altri. A Gabi, il protagonista di Menatek Ha-Maim, viene affidata una semplice mansione idraulica: tagliare cioè l’acqua ai cittadini che non hanno pagato la bolletta. Un incarico semplice e veloce, da svolgere con pinze e secchiello, che eppure ben presto si dimostra psicologicamente insostenibile e violento; perché così facendo il protagonista si attira l’odio e le antipatie di tutti i suoi utenti, al punto da compromettere persino il futuro calcistico del figlio, nel quale riponeva tutte le sue speranze di padre e di uomo. Idan Hubel racconta la disperazione silenziosa dei ceti più poveri della popolazione, anche quando questa è causata dal semplice gesto dello svolgere il proprio lavoro, qualsiasi esso sia.

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La sua cinepresa registra con semplicità e immediatezza un mondo sospeso, senza passato né futuro, in cui le vecchie generazioni faticano per ottenere un pezzo di pane e le nuove dovranno rinunciare ai propri sogni e alle proprie aspirazioni (la temibile leva militare israeliana, che qui stronca la carriera calcistica del giovane). Il suo stile invisibile e dimesso però non sempre riesce a immortalare questo universo con ferma compiutezza, perché spesso si limita agli aspetti più superficiali del reale; in questo modo, Menatek Ha-Maim si accontenta di fermarsi sulle gesta e sulle vicende più prevedibili, trasformando la riflessione su un destino già scritto in qualcosa di oggettivamente banale e mai davvero incisivo. Hubel guarda nientemeno che al modello neorealista italiano, dimostrando comunque una sincerità di intenti che non può non essere rispettata: ma il suo sguardo manca di quella capacità di indagare a fondo ciò che viene messo in scena, seminando tracce di compassione per i suoi personaggi che non diventano mai tragedia o epica del quotidiano. Come se tutto si fermasse alle intenzioni di partenza, fotografando quindi questo mondo da un campo medio, indistinto: né troppo vicino, né troppo lontano.

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