VENEZIA 69 – “O Gebo e a Sombra”, di Manoel de Oliveira (Fuori concorso)

o gebo e a sombra

De Oliveira è lì, o meglio qui, a mostrarci un cinema come storia in disfacimento. Come se la Storia fosse un disfarsi e mai un farsi. Eppure, è proprio nel suo evidente essere fuori tempo che de Oliveira immagina una resistenza. Sospende l’entropia delle cose, la dispersione di un movimento che vuole arrivare alla perfezione dell’immobile. Ogni fatica, ogni sforzo è cancellato

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o gebo e sombraMa quante inquadrature ci sono in O Gebo e a Sombra? Una trentina? Qualcuna in più? Qualcuna in meno? Il cinema sembra arrivare qui al suo grado zero, ricercare quell’immobilità frontale del muto, quella stasi, una stagnazione prerivoluzionaria, quella sintassi minima che testimonia l’incapacità di restituire un movimento. E se fosse teatro filmato? Del resto dal teatro si parte, dalla pièce di Raul Brandão. Ma al tempo stesso, c’è la capacità di pensare ogni quadro secondo le sue estreme possibilità compositive, prospettiche, pittoriche, splendidamente rese dalla fotografia di Renato Berta (che non girava con de Oliveira dai tempi di Specchio magico). O anche il coraggio di accelerare improvvisamente in uno scatto, durante la fuga di João, unica vera e propria fibrillazione concessa da questa macchina pesante. La magia di de Oliveira sta nella sua capacità cogliere il punto di coincidenza tra un tempo che tende all’infinito e un tempo uguale a zero. In O Gebo e a Sombra c’è tutta la forza evocativa di un cinema che gioca tra le luci fioche del visibile e le ombre, tra l’illusione dei corpi e la verità dei fantasmi.

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Gebo è un anziano contabile costretto a lavorare fino a notte per mantenere la famiglia. Sua moglie Doroteia, dal canto suo, è completamente preda della disperazione, dopo che il figlio João è fuggito da casa, abbandonando alle cure dei suoi la giovane moglie Sofia. Al ritorno del figliol prodigo, quello che dovrebbe essere un momento di gioia si trasforma nell’infausta condanna della povera ma onesta famiglia di Gebo.

 

o gebo e a sombraDe Oliveira porge il suo apologo morale, questo scontro di generazioni, quasi spiegandolo nell’immobilità indifferente di un affresco. La storia disegnata sul muro, sullo schermo. Ma è chiaro che l’intento è di tenere ancora pallidamente in vita i fantasmi di un cinema che non c’è più, i respiri affannosi di Michel Londsale, Claudia Cardinale, Jeanne Moreau, Luìs Miguel Cintra. Eppure, proprio a quei fantasmi è concessa una densità, una profondità, scolpita nella tenuta morale della loro presenza. Alla fine, in un magnifico rovesciamento, de Oliveira mostra come i fantasmi, in realtà, siano gli altri, quelli che pretendono di appartenere al nuovo. Già dal titolo, a Gebo è riconosciuta la possibilità di un nome, di un’identità. L’ombra è l’altro, è João, Ricardo Trêpa che appare e scompare in un nulla. Fantasma, forse, è anche Sofia, che lo sguardo di Doroteia scorge riflessa in una finestra, non si sa se dentro o fuori, prima o dopo. Altra Angelica che attraversa come un soffio l’immagine. De Oliveira condensa nello spazio chiuso, rigidamente limitato, nel tempo nullo, infinito di questo film un’intera storia del cinema, che coincide praticamente con la sua. Dalla primissima scena dopo i titoli di coda, con le due mani minacciose che emergono dal buio e l’uomo che fugge, da quel momento puro di cinema muto ai resti, ai cadaveri lasciati sul campo dalla contemporaneità.

O Gebo e a Sombra è un altro film di residui, di mutazioni avvenute e irreversibili, di codici saltati, di padri e figli che hanno perso un comune sentire, di scelte morali necessarie, ma immancabilmente fuori tempo. Il cinema riparte dal principio, nel tentativo di ricostruire le proprie ragioni una volta compiuta la catastrofe. In fondo, non c’è gran differenza tra questo de Oliveira che filma e si muove con la velocità e con l’infinita sapienza dei suoi cent’anni, e un Wakamatsu, un Kitano, un Redford. Tutti sembrano ormai inchiodati a una storia ‘irraccontabile’ (“i miei allievi si appassionano a quello che racconto, ma non sanno che farsene”). Chi vede il tempo avvitato completamente in una spirale. Chi sembra ricostruire la possibilità di un cinema solo innestandola su uno scheletro, fondandola sulla disperazione dei cadaveri. Chi cerca di ritrovare il senso di ciò che è stato. E de Oliveira è lì, o meglio qui, a mostrarci un cinema come storia in disfacimento. Come se la Storia fosse un disfarsi e mai un farsi. Eppure, è proprio nel suo evidente essere fuori tempo che de Oliveira attua una resistenza. Sospende l’entropia delle cose, la dispersione di un movimento che vuole arrivare alla perfezione dell’immobile. Ogni fatica, ogni sforzo è cancellato: l’affanno di Lee Kang-sheng, che in Tsai Ming-liang attraversa il quadro, solo per scoprirsi in un punto fisso. La velocità del cinema e del mondo arrivano forse a coincidere.

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