VENEZIA 69- "Stories We Tell", di Sarah Polley

stories we tell

 

Non si mette in dubbio la bravura dell'attrice canadese al terzo film dietro la macchina da presa, ma qui vuole avere troppo l'aria da prima della classe, in un diario privato che invece soffoca nelle sue parole, in una ricostruzione in cui si avverte il bisogno di una sperimentazione stilistica, in una ricerca della verità spesso recitata con in più forse una punta di sadismo. Forse, in futuro, rimpiangerà di aver fatto questo film troppo presto.

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stories we tell"Cosa sei, un'intervistatrice sadica?" dice il padre Michael Polley alla figlia Sarah durante la sua intervista/confessione. Stories We Tell può apparire come un diario privato che prende forma, come un viaggio alla ricerca del proprio passato. Lei infatti sta facendo un'inchiesta tra diversi familiari e conoscenti per avere racconti sulla madre (scomparsa nel 1990 a 54 anni) e soprattutto per far emergere una verità che la riguarda direttamente. Il padre ha la funzione del narratore, presente già dall'inizio in una sala di doppiaggio in cui lei le chiede spesso "Puoi ripetere l'ultima frase?", come per sottolineare alcuni passaggi essenziali. La Polley, diretta da registi come Atom Egoyan (Il dolce domani), Jaco Van Dormael (Mr. Nobody), Isabel Coixet (La vita segreta delle parole), Kathryn Bigelow (Il mistero dell'acqua) e Terry Gilliam (Le avventure del Barone di Munchausen), viene da una famiglia di attori. E questo percorso, sospeso tra ironia e dolore, da spesso l'impressione di essere costruito. Nel documentario vero s'inserisce infatti quello invece appositamente ricreato, con colori sgranati, finti filmati d'epoca su alcuni momenti essenziali della vita della madre per poi svelare il trucco con la Polley sul set assieme all'attrice che interpreta la madre. Non si mette in dubbio la sincerità e sul fatto che l'attrice si sia messa totalmente in gioco. Si mette in dubbio invece il metodo, già troppo scritto sulla carta, segno profetico di un film che soffoca proprio nel suo fiume di parole. E tra queste figure, una funzione determinante ce l'ha Harry Gulkin, importante produttore canadese (il suo Lies My Father Told Me venne candidato all'Oscar nel 1976 per la miglior sceneggiatura) con cui la madre della Polley ha avuto una relazione duratura. 

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Non si mette il dubbio la bravura della Polley – e il suo primo film da regista, Away from Here, lo aveva dimostrato, in attesa di vedere Take This Waltz con Michelle Williams e Seth Rogen – ma in questo suo terzo lungometraggio dietro la macchina da presa, parallelamente a quello che racconta, vuole mostrare di avere l'aria da prima della classe: immagini traballanti del passato, piani fermi nel presente dove ogni frase, anche la più veritiera, è pronta lì per essere recitata. Basta vedere il modo in cui inquadra in sequenza molti dei personaggi intervistati, tutti con lo sguardo nel vuoto e un po' velato da tristezza. Oppure quando parla dei genitori che avevano recitato insieme in Filumena Marturano e poi sale in cattedra per una tediosa lezione di storia del cinema con Matrimonio all'italiana di De Sica. E una storia, che poteva essere bellissima, evapora. Forse ha avuto troppa fretta di fare un film del genere, forse avrebbe dovuto aspettare un altro po' di anni per metabolizzare meglio gli eventi. Forse, in futuro, rimpiangerà di aver fatto Stories We Tell troppo presto.

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