VENEZIA 69 – "The Master", di Paul Thomas Anderson (Concorso)
Inizia forse a configurarsi un pericoloso distacco dall’emozione del cinema in quest’ultima opera di Paul Thomas Anderson, una consapevolezza autoriale che incatena The Master a un’impronta concettuale in cui le immagini e il loro mondo finiscono col diventare elementi superflui rispetto all’Idea. Ne viene fuori un’opera più spossante che complessa
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Il cinema di Paul Thomas Anderson comincia al suo sesto film a intraprendere definitivamente il cammino forse pericoloso di un’autorialità unilaterale, de-spettacolarizzata, certamente mai furba né ruffiana, ma vagamente alienata. The Master procede con ritmo compassato, come fosse stato concepito e realizzato sotto ipnosi, e possiede il fascino e il limite di una bipolarità forse sempre presente nella poderosa filmografia andersoniana, qui al suo episodio probabilmente più lucido (“poteva dire tutto in un pamphlet di tre pagine invece di scrivere un libro” dice un personaggio a proposito del “maestro”) e allo stesso tempo respingente, con legami anche stavolta profondi – ma più sfumati – con il cinema di Eric Von Stroheim e Orson Welles. Freddie Quell è un reduce della Seconda Guerra in cerca di una ricollocazione sociale. Alcolizzato e violento, si imbatte una notte in un battello diretto a New York City dove viaggia Lancaster Dodd, leader carismatico di una organizzazione filosofica e scientifica denominata la Causa che crede nella riabilitazione del corpo e dello spirito attraverso la meditazione e il recupero di ricordi appartenenti a vite precedenti. Freddie entra così a far parte della comunità di Lancaster, si sottopone alle sue sedute, nel tentativo di “guarire” e tenere a freno quella che Dodd definisce il vero limite di ogni essere umano, ovvero la sua animalità. Sotto certi punti di vista Paul Thomas Anderson continua a parlarci della famiglia, suo tema prediletto. Come già in Boogie Nights, la setta di Dodd diventa una sorta di famiglia artificiale in cui Freddie si rifugia in cerca di nuovo calore umano e di una figura paterna. È però proprio questo calore il grande assente di un film che, come e più del “maschile” Il petroliere, affonda spettatore e protagonista dentro un imbuto vaginale – nel film precedente caratterizzato soprattutto dall’immersione dell’uomo dentro la terra – che è il vero leitmotiv ossessivo del film. Le donne che circondano i due protagonisti diventano infatti tunnel carnale e percettivo, sfondo figurale e allucinatorio su cui applicare i punti di fuga del regista e dei suoi protagonisti. È attraverso la figura femminile che The Master sembra così trovare il respiro evasivo e medianico di una prigione filmica spesso asfissiante. Inizia infatti a configurarsi un pericoloso distacco dall’emozione del cinema in quest’ultima opera di Paul Thomas Anderson, una consapevolezza autoriale che incatena The Master a un’impronta concettuale in cui le immagini e il loro mondo finiscono col diventare elementi superflui rispetto all’Idea. Ne viene fuori un’opera più spossante che complessa, verbosa, claustrofobica, il cui fascino maggiore risiede soprattutto nella dimensione extradiegetica di un training psicoattoriale finalizzato a una riabilitazione umanizzata di Joaquin Phoenix. Qui si gioca una partita certamente extradiegetica che è l’elemento più interessante del film di Anderson. Tutta la storia di The Master sembra infatti la rappresentazione di un processo curativo finalizzato a recuperare il corpo e l’anima di Phoenix dalle macerie semi-autobiografiche raccontate nell’ottimo I’m Still Here di Casey Affleck. In 135’ il film di Paul Thomas Anderson racconta la fatica di una ricollocazione corporea e mentale del personaggio Phoenix che – in aperto contrasto con la parola del guru interpretato da Philip Seymour Hoffman – assume le deformazioni fisiche di un umanoide in attesa di rieducazione alla vita (e al cinema). Forse nella figura ambigua (e filosoficamente fragilissima) di Seymour Hoffman, chiaramente ispirata, nonostante le smentite pubbliche, al leader di Scientology Ron Hubbard, il regista americano parla anche un po’ di se stesso e del suo cinema, costantemente oscillante tra talento, smisurata ambizione e confusione contenutistica. Di taglio The Master potrebbe diventare, con gli anni, il reperto documentario di una doppia confessione artistica – quella di Phoenix e di Anderson stesso. Al momento, però, la loro sembra una performance giocata a porte chiuse. Senza spettatori.
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"…un’opera più spossante che complessa, verbosa, claustrofobica, ma anche sorprendentemente vaginale e densa di una femminilità allucinatoria, il cui fascino maggiore risiede soprattutto nella dimensione extradiegetica di un training psicoattoriale finalizzato a una riabilitazione umanizzata di Joaquin Phoenix"… per me l'autore di questo articolo ha fumato roba pesante.
Questo è il genere di recensione che risulta accessibile solo agli addetti ai lavori, fatto più per esaltare l'ego di chi scrive, che per guidare lo spettatore nella visione del film, scopo ultimo di ogni recensione a parer mio.
Forse "poteva dire tutto in un pamphlet di tre pagine invece di scrivere un libro”? Per fortuna non l'ha fatto! Cosa non capite di questa recensione? E cosa non capite di un film? Se vi serve una consulenza sono disponibile, hihiihhihi….
Dissento dai post critici e ritengo invece la recensione molto lucida, estremamente lucida, soprattutto nella parte in cui annusa il pericolo di una caduta di PT verso l'autorialità estrema dove si gioca solo a porte chiuse.D'altronde anche a me ha fatto pensare ad un film che è rimasto molto più nella testa di PT che nella pellicola.
"guidare lo spettatore nella visione del film" è un concetto a dir poco obsoleto. Lo spettatore non è un rincoglionito (si spera) che ha bisogno di assistenzialismo, e una volta buona dovreste rassegnarvi al semplice fatto che un commento critico NON corrisponde alla sinossi del film: quella si può copiare pari pari dal pressbook.
Il critico chauffeur, e il pubblico sul sedile posteriore. @Andrea mi sa che tu ti sei fumato qualcosa di pesante, diglielo a @scottexpakula.Che sia complessa, questa recensione, è palese. Ma ogni tanto possiamo dedicare un po' del nostro cervello alla lettura, o dobbiamo per forza leggere mentre il 90% del nostro pensiero è in multitasking?
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